La Cina è vicina, ma di più l’America di Trump

- di: Matteo Borrelli
 

Mentre i Paesi asiatici che, fino ad oggi, sono stati i grandi alimentatori del gigantesco mercato degli Stati Uniti, cominciano a tremare, pensando a come le scelte di Donald Trump in materia di dazi impatteranno sulle loro esportazioni, l’Europa sembra non avere ancora trovato il tempo - accantonate le beghe politiche tra conservatori e progressisti - per interrogarsi come il mutato quadro politico degli Stati Uniti condizionerà i prossimi anni, anche i nostri e non solo quelli degli americani.

Sino ad oggi, guardando all’amministrazione Biden, la rete di rapporti tra Stati Uniti ed Europa è stata improntata ad un gentlemen agreement, del tipo “curiamo i reciproci interessi ed evitiamo di alzare il livello del confronto”.

Ma il cambio di inquilino alla Casa Bianca e le strategie protezionistiche, che tanto hanno contribuito alla vittoria elettorale dell’immobiliarista newyorkese (facendo presa nella mentalità degli americani che vivono di stipendio e magari non conoscono le dinamiche del commercio internazionale, dove è tutto un “dare e avere”) , non riguarderanno solo il Dragone, con la cui economia Trump ha da sempre un conto aperto, quindi irrisolto, ma anche l’Europa. Di cui, lo diciamo sommessamente a beneficio di chi pensa che potremmo anche farne a meno, facciamo parte anche noi italiani.

Il cambio di politica di Donald Trump non si limiterà alle tematiche interne, quali il diritto delle donne a decidere da sole se portare avanti o interrompere una gravidanza (un tema che allargherà ulteriormente la spaccatura nella società statunitense) o al problema dell’immigrazione illegale, che il 47/mo presidente intende ‘‘risolvere’’ con una deportazione di massa che riguarderebbe milioni di persone.

Un tema, quest’ultimo, che è stato utile sbandierare in campagna elettorale per acuire la paura del ‘‘diverso’’ che alberga nella maggioranza degli americani (non solo wasp, ma anche blacks e latinos) soprattutto legandola al lavoro e alla sicurezza pubblica. Ma, allo stesso tempo, è un problema che, se fosse risolto alla maniera che Trump vuole utilizzare, avrebbe un peso economico enorme, perché gli immigrati illegali alimentano l’economia parallela e soprattutto perché un piano per deportare milioni di persone (uomini, donne, bambini, famiglie) costerebbe mille miliardi di dollari in dieci anni.

Eppure Trump e la sua vittoria sono stati accolti con entusiasmo da quella parte della politica europea e italiana che ritiene le ricette del tycoon come le migliori.

Il tempo dirà chi ha ragione, ma forse bisognerebbe pensare, con un pizzico di sano realismo o anche di cinismo, decida il lettore se le mosse di Trump, alla fine, colpiranno l’Europa (e quindi  l’Italia) allo stesso modo della Cina.

Il ragionamento è semplice: sebbene i dazi colpiscano non chi esporta, ma l’importatore, la conseguenza scontata è che quest’ultimo, per non rimetterci, deve alzare i suoi prezzi, che ricadono sul fruitore finale (il consumatore) costretto a scegliere e, presumibilmente, a diminuire gli acquisti di prodotti stranieri.

Un circolo vizioso di cui pare non si avvedano coloro che, in casa nostra, godono nel vedere una vittoria in quella d’altri, non pensando a cosa comporterà da noi.  E anche le scelte di politica estera del futuro presidente americano si riverbereranno dalle parti dei Palazzi nostrani perché, è solo l’esempio più chiaro, se Trump, per come ha fatto capire, ha deciso di ridurre sempre di più i finanziamenti americani alla resistenza ucraina davanti all’invasione, quei soldi che mancheranno da qualche parte dovranno pure uscire. E se pensiamo che Giorgia Meloni da sempre difende strenuamente la sovranità di Kiev davanti agli artigli dell’orso russo, tutto potrebbe risolversi con un ulteriore peso per le nostre disastrate casse che, per l’acclarato principio di macropolitica della ‘‘coperta corta’’, dovranno tagliare da qualche altra parte. E probabilmente, Giorgia Meloni avrà letto con attenzione l’intervista resa ieri, al Corriere della Sera, da Steve Bannon, che ha posto una cesura tra il passato e il presente del Presidente del consiglio, le cui posizioni pro-Kiev non piacciono proprio all’ideologo del movimento ‘‘Maga’’. Le parole di Bannon non possono essere ridimensionate o marginalizzate, perché raccontano di una distanza che si è frapposta tra gli Stati Uniti, quelli a partire da gennaio, e il nostro governo e contengono qualcosa che sembra essere più di una constatazione, assumendo il profilo di un ammonimento quando ‘‘raccomanda’’ al presidente del Consiglio ‘‘sii ciò che eri quando Fratelli d’Italia era al 3%’’.

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