Antonio Riello

 

Lei è tra gli artisti italiani più noti e interessanti e le sue opere sono molto apprezzate in tutto il mondo. Eclettico, con interessi che spaziano tra storia, moda e antropologia, lavora in modo ironico e straniante sul concetto di identità. Come è situato il suo lavoro all’interno delle tendenze dell’arte contemporanea? In un’importante esposizione realizzata in Germania nel 1995 lei è stato indicato come un esponente dell’Italienischer ironischer konzeptualismus (Concettualismo ironico italiano). Si riconosce in questa affermazione
A dire il vero credo che questo termine aveva un senso preciso in quell’occasione perché’ la mostra era ospitata da alcuni musei tedeschi. Direi piuttosto che in generale l’Arte Contemporanea italiana ha sempre avuto al suo interno, fin dalle esperienze del Futurismo, una sua certa attitudine al gioco. Espressa talvolta con un certo sarcasmo abbastanza diretto (Piero Manzoni, Pino Pascali, Aldo Mondino, Maurizio Cattelan). Oppure declinata con un’ironia piu’ sfumata e leggera (Fortunato Depero, Alighiero Boetti, Alex Pinna, Dario Gribaudo, Lara Favaretto). Immagino di poter collocare, di volta in volta, il mio lavoro in una di queste due situazioni. Del resto, come scriveva Roger Caillois: “niente è così serio come il gioco…”. Le mie “Vespe per non andare da nessuna parte” possono testimoniarlo.

Perché, in riferimento alle sue opere, spesso si parla di ‘humour nero’?
La malvagità diventa più facile da porre in discussione e da neutralizzare quando viene ridicolizzata. Il fatto è che il male ha un suo morboso e innegabile fascino che però diminuisce/vanisce quando mostra le sue debolezze, anche quelle estetiche. Immaginare Stalin o Hitler in mutande e calzini li rende non meno esecrabili, ma certamente meno carismatici. Il potere dell’estetica sta nel saper togliere (o aggiungere) glamour visivo alla realtà influenzando così radicalmente il modo in cui la prospettiva etica viene percepita. E questo è ancora più rilevante con i social media dove l’immediatezza toglie spazio all’approfondimento e al controllo.

Nel suo lavoro si coglie costantemente l’anti retorica. Lei trasforma ciò che non è familiare in qualcosa di familiare, spezzando le certezze delle abitudini quotidiane, trasformando oggetti banali in icone (un critico ha scritto che, “riciclando le fibre di cocco e giocando con le icone AlterModern, salva l’umile zerbino dalla sciattezza e dalla banalità della routine domestica”). È corretta questa chiave di lettura (importante, ma non certo l’unica) delle sue opere? E perché questa tendenza anti retorica, forse perché nell’arte contemporanea – o almeno in alcuni suoi filoni - coglie elementi di retorica che vuole contestare e rovesciare? 
Non spetta a me contestare o rovesciare nulla. Penso semplicemente che la retorica (anche quando è animata dalle migliori intenzioni) renda sonnolento, noioso e scontato il messaggio che si vuol dare. Quindi opto per l’anti-retorica, ma appunto solo per ragioni “tecniche”. Aggiungerei che comunque il “politicamente corretto”, doverosa e meritevole forma di rispetto che impera nell’universo delle Arti Visive, quando è fine a se stesso e supera i limiti della ragionevolezza può diventare a sua volta una forma di goffa retorica. Quando è così lo posso ritenere eventualmente un legittimo bersaglio per le mie opere. E aggiungerei che quando qualcuno afferma di “scandalizzarsi” davanti ad un ‘opera d’arte oggi fa solo finta di farlo per rendersi, forse, un po’ più interessante….

A proposito di anti retorica, prende di mira anche l’infanzia, o meglio prende di mira la retorica dei buoni sentimenti con cui l’infanzia viene incipriata. A questo proposito ha affermato che “l’infanzia è quasi sempre la vittima predestinata dei luoghi comuni sulla bontà”. Su questo tema ha realizzato i biberon e i bavaglini decorati con i ragni, le caramelle avvelenate (‘Baby Roulette Russa’), i patiboli realizzati con i mattoncini della Lego, il Monopoli a cui sono stati sostituiti case e alberghi con prostitute di varie razze. Il suo lavoro su questo fronte appare un inno alla liberazione dell’infanzia dai luoghi comuni, la rinascita del bambino da ‘bambolotto’ a essere umano complesso e anche contraddittorio, che va visto nella sua individualità. Molto montessoriano, come messaggio…
Completando la risposta precedente aggiungerei che la retorica si nutre di frasi fatte, buoni sentimenti e luoghi comuni. Non c’è luogo comune più abusato ed improprio di quello dell’infanzia: tutti i bimbi sanno essere, all’occasione, anche molto crudeli. Inevitabile dunque che la mia ricerca abbia investito il mito di un’infanzia vista sempre e solo come una cosa innocente e virtuosa. Le opere fotografiche della serie “Today Special” potrebbero illustrare bene questo punto di vista.

Fece molto discutere, e continua a far discutere, un suo lavoro del 1997, ‘Italiani brava gente’, in cui si affrontano in modo provocatorio l’intolleranza e la xenofobia che si stava diffondendo in Italia nei confronti dell’immigrazione albanese. In questo lavoro, come in altri, ha utilizzato il videogioco come mezzo d’espressione artistica. Perché la scelta del videogioco trattando di un tema così controverso, allora come oggi?
Il mondo dei videogames è una specie di territorio franco dove i comportamenti della società ad un certo punto sono considerati come qualcosa di labile e giocoso. Ci si possono permettere cose che in altri contesti mediatici o digitali non sono ammissibili. E’ il luogo dove in questo tempo confinare certe tendenze inconfessabili: la violenza, la conquista, il colonialismo, la guerra e, in qualche modo, anche certe forme di razzismo. L’ho scelto perché’ mi sembrava l’ambiente naturale per un lavoro, IBG, basato sulla xenofobia.

 
In molte sue opere emerge prepotente il tema distruzione-conservazione. Basti citare il progetto itinerante ‘Ashes to Ashes’, in cui ha esposto cento urne di vetro - realizzate da Massimo Lunardon - contenenti le ceneri di altrettanti libri che aveva selezionato e bruciato dalla sua biblioteca personale. Oppure ‘Vatican Army Navy Air Force’ dove missili, aerei da guerra e bombe vengono rivestiti da dipinti a soggetto religioso, ossia da elementi che non solo sono centrali nella tradizione artistica italiana, ma rimandano di per sé all’idea di eterno. Perché questa centralità del dilemma distruzione-conservazione nelle sue opere? Qual è per lei la linea di confine tra distruzione e conservazione e quale la loro dialettica sul ‘fil rouge’ del tempo che passa e che può distruggere, ma anche conservare?
In estrema sintesi l’Arte è principalmente un disperatissimo e incoerente tentativo (quasi sempre vano…) di fermare l’azione del tempo. Una maniera per “fissare” qualcosa che se no scivolerebbe via inghiottito dall’implacabile passato. La ingenua ed eroica creazione di una “eternità tascabile”. Distruzione e Conservazione sono solo due aspetti complementari ed inevitabili di questa meravigliosa e tumultuosa avventura.

Molti critici affermano che le sue opere, pur occupandosi di tematiche globali, sembrano avere come loro riferimenti principali degli atteggiamenti e delle tendenze che riguardano nello specifico l’Italia. Valga per tutti la riproduzione di armi decorate con gioielli e tessuti leopardati in ‘Ladies Weapons’, che collega la mania per la sicurezza personale con la passione per la moda in Italia. Quanto i riferimenti e le tendenze italiane pesano nella sua opera? E perché l’Italia, solo perché lei è italiano o perché presenta un ‘quid’ universale di particolare stimolo e ispirazione?
Ovviamente ognuno di noi riesce a raccontare molto meglio le storie che conosce a fondo piuttosto che quelle di cui ha solo sentito parlare. Ma poi c’è di più dietro a questa scelta “italiana”: l’Italia e in particolare la Lombardia (con Brescia e Milano) sono state la culla dei grandi armorari Rinascimentali. Dinastie come quelle dei Negroli avevano il primato mondiale nella costruzione di armature finemente e riccamente decorate. Bisogna immaginarle come “Ferrari da Guerra” del tempo: un’enorme qualità, delle prestazioni superbe, un design imbattibile, un costo elevatissimo e tutte fatte “su misura”. Una storia che mi ha sempre affascinato e di cui si conosce poco. Mi sono ispirato anche a questa narrazione per le mie Weapons. La loro paradossale allure basta da sola a descrivere l’assurdità dell’aggressività umana.

Il sarcasmo e l’ironia sono le cifre stilistiche preferite della sua esplorazione. Su questo filo, a quali opere è più affezionato, ossia quelle in cui valuta che questi due elementi emergano all’ennesima potenza?
Qualche filosofo definisce questi nostri anni “Alter Modern Age” per le tante contraddizioni che lo caratterizzano. E quando un lavoro porta con se’ diversi contrasti mi piace di più. “Ashes to Ashes” è un progetto iniziato nel 2009 e tuttora in corso, consiste della distruzione dei libri della mia biblioteca che amo di più e nel trasferimento delle loro ceneri in reliquiari in vetro soffiato da me disegnati e realizzati. C’è il tabù della distruzione dei libri con il fuoco, atto vandalico e barbarico per eccellenza. C’è però anche l’affettuoso risparmiare ai miei libri gli insulti del tempo (polvere, umidità, insetti, il fuoco stesso) trasformandoli in Arte. C’è il fare posto nella biblioteca a nuovi libri che portano nuove idee, ma anche un tributo solenne a quelli che, letti e riletti, già c’erano da tempo. C’è amore, quasi morboso e geloso, e c’è la presa d’atto che i libri stampati stanno cedendo il passo a quelli digitali (anche per ragioni di costo e sostenibilità).

La sua acuta esplorazione mette davanti, appunto con il sarcasmo e l’ironia, a percezioni della realtà che non sono quelle che appaiono, o meglio che le convenzioni sociali fanno apparire in un certo modo. In qualche modo, per parlare in termini freudiani, lei dà l’impressione di colpire, di vulnerare il ‘Super Io’ (ovvero le regole e le convenzioni sociali che vengono introiettate fin dall’infanzia) per far aprire gli occhi sulle contraddizioni della realtà e di noi stessi, per aprire le porte serrate alla mente - e quindi alla coscienza - dal Super Io, ponendo quindi davanti a ‘provocazioni’ che appunto fanno apparire le cose in modo diverso e permettono di coglierle in maniera più profonda, che necessariamente significa anche più complessa. Un processo che può essere urticante e scioccante. È per questo che spesso lo ingentilisce con lo humour, che certamente ha affinato e affina nelle sue lunghe frequentazioni londinesi? Oppure lo humour (‘nero’ o ‘bianco’) stesso è un ingrediente della provocazione liberatoria?
Senz’altro mi piace molto l’attitudine britannica di trattare anche le cose più tremende con un certo distacco, a volte perfino ironico. E, probabilmente, questo fatto “filtra” all’interno delle mie creazioni. In ogni caso le opere d’arte hanno sempre una possibile serie di piani di lettura/fruizione e l’elemento ironico ne rappresenta solo uno. In taluni casi può essere il più evidente ma non è certo l’unico. E’ come in cucina: ci sono sempre diversi ingredienti, anche se per ogni chef alcuni sono più ricorrenti di altri.

In un’intervista lei ha affermato che il suo modello “è un modello letterario o comunque affine alla letteratura. Più precisamente è un genere letterario: La fantascienza. Intendo dire che, come uno scrittore di fantascienza, mi piace immaginare (realizzandone alla fine dei frammenti che diventano dei reperti) dei mondi paralleli, sottolineando, appunto attraverso il paradosso e l’ironia, le affinità e le differenze rispetto alla realtà”. Cosa dobbiamo attenderci nel futuro? A quali mondi paralleli - e liberanti dalla catene del Super Io - sta guardando e con quali tecniche artistiche li esprimerà?
Bisogna continuare ad esser curiosi e scoprire, magari dietro l’angolo di casa, mondi inediti ed intriganti.
Oggi mi stanno affascinando in modo particolare quei materiali e quelle situazioni che sono state un po’ dimenticate, o comunque trascurate. Sto realizzando dei grandissimi zerbini (grandi anche una ventina di metri quadri) in fibra di cocco riciclata: molti artisti si sono occupati di tappeti e arazzi negli ultimi anni, ma l’umile zerbino sembra non interessare quasi nessuno. A me interessa eccome: perché è umile appunto, perché da’ sempre il benvenuto quando si entra in una casa, e perché diventa deliberatamente, nel mio caso, “Arte Calpestabile” (antiretorica rispetto alla strombazzata “sacralità” dell’Arte).

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