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Gli americani bocciano Trump: economia giù e fiducia a picco

- di: Bruno Legni
 
Gli americani bocciano Trump: economia giù e fiducia a picco
Con Trump l’economia frena e il sogno americano svanisce
Sondaggi, prezzi alle stelle e fiducia in caduta: gli Stati Uniti scoprono che la promessa di prosperità infinita non regge più. E l’onda lunga del malcontento spinge in avanti i candidati democratici.

Negli Stati Uniti il presidente che ha promesso di far “vincere di nuovo l’America” viene oggi punito proprio sul terreno che considerava il suo punto di forza: l’economia. Gli ultimi sondaggi nazionali descrivono un Paese stremato dall’aumento dei prezzi, dal costo della vita e da una sensazione di precarietà diffusa. E per una maggioranza crescente di cittadini il vecchio mantra “se lavori duro, andrai avanti” non funziona più.

Un rilievo che colpisce doppiamente Donald Trump: da un lato perché lo distanzia perfino dal già impopolare finale di mandato del suo predecessore; dall’altro perché incrina l’immagine, accuratamente costruita, del “businessman” capace di rimettere in moto la macchina americana.

Un presidente bocciato proprio sull’economia

Una delle più recenti rilevazioni nazionali indica che oltre tre quarti degli elettori giudicano l’economia in condizioni negative, una quota più alta rispetto alla fase finale della presidenza precedente. Ancora più significativo è il cambio di bersaglio politico: alla domanda su chi sia il principale responsabile della situazione economica, quasi i due terzi degli intervistati puntano il dito contro l’attuale inquilino della Casa Bianca, mentre solo una minoranza continua a dare la colpa al passato.

Il giudizio complessivo su Trump riflette questo malessere: l’approvazione personale si ferma poco sopra il 40%, mentre quasi il 60% esprime un giudizio negativo, uno dei livelli più bassi del suo secondo mandato. Il dato che fa più rumore, per un presidente che ha costruito la propria forza su un legame quasi tribale con la base, è la crepa che si apre proprio nel suo zoccolo duro: uomini bianchi, elettori senza laurea, lavoratori delle aree rurali e periferiche.

Tra i repubblicani la maggioranza continua ad esprimere un giudizio favorevole, ma la quota degli entusiasti scende di diversi punti in pochi mesi, segnale che perfino nei circoli trumpiani la narrativa della Maganomics inizia a suonare come una promessa mancata.

Prezzi in salita, stipendi fermi: il conto della Maganomics

Dall’altra parte dei questionari c’è la vita reale. Le interviste raccolte nelle indagini più recenti mostrano un filo rosso: spese per la spesa quotidiana, bollette, sanità e alloggi percepite come in crescita costante rispetto all’anno precedente.

Una fetta molto ampia dell’elettorato – in particolare chi non ha un titolo universitario, gli afroamericani, gli ispanici, gli under 45 e chi guadagna meno di 50 mila dollari l’anno – descrive la propria condizione economica come “appena sufficiente” o “negativa”, con quote di insoddisfatti che in alcuni gruppi sociali sfiorano o superano il 70%. In parallelo, un’altra indagine nazionale evidenzia come circa tre quarti degli americani denuncino un aumento delle spese mensili rispetto a dodici mesi prima, nonostante la crescita del Pil e un mercato del lavoro ancora formalmente solido.

È il cuore del paradosso economico trumpiano: indicatori macro che la Casa Bianca ostenta come prova del “miracolo” e, sotto, una quotidianità che molti percepiscono come sempre più in salita. La distanza tra la narrazione del presidente – che rivendica di aver “vinto contro l’inflazione” – e la realtà degli scontrini al supermercato scava un solco di sfiducia che si traduce direttamente nelle intenzioni di voto.

Quando nemmeno chi guadagna sei cifre si sente al sicuro

Il malessere non riguarda più soltanto i ceti popolari. Una vasta ricerca nazionale dedicata ai redditi medio-alti mostra che quasi un terzo di chi guadagna almeno 100 mila dollari l’anno si definisce “stretto”, “in difficoltà” o “finanziariamente al collasso”. Quella che un tempo sarebbe stata considerata una soglia di benessere oggi viene descritta da molti come “stipendio di sopravvivenza”, sufficiente a coprire le spese di base ma non a garantire sicurezza o prospettive.

Nello stesso filone si inseriscono altre indagini pubblicate nel 2025, secondo cui quasi la metà degli americani ritiene di dover guadagnare almeno 100 mila dollari l’anno per sentirsi “a proprio agio”, mentre oltre tre quarti non si sentono finanziariamente sicuri e circa un terzo pensa di non riuscire mai a raggiungere quella soglia. In questo contesto, vacanze, benessere personale e persino i risparmi per la pensione scivolano dal capitolo “obiettivi di vita” a quello delle “cose belle da avere, se mai sarà possibile”.

Il risultato è una nuova geografia sociale in cui anche una parte della fascia medio-alta – un tempo considerata naturale alleata del Partito repubblicano – inizia a guardare con sospetto a una Casa Bianca percepita come distante e ossessionata da dazi, muri e deportazioni di massa più che dal potere d’acquisto.

Il sogno americano diventa un ricordo

Il dato forse più simbolico arriva dalla domanda che colpisce al cuore il mito fondativo del Paese: il sogno americano è ancora valido? Le rilevazioni più aggiornate indicano che quasi il 70% degli americani ritiene che l’idea “se lavori duro, andrai avanti” non sia più vera o non lo sia mai stata. Solo una minoranza si dice convinta di avere una buona possibilità di migliorare il proprio tenore di vita.

La sfiducia si allarga a tutte le generazioni, con una particolare amarezza tra i giovani che entrano in un mercato del lavoro dominato dall’incertezza tecnologica, dalla competizione globale e dal peso del debito studentesco. Un analista ha sintetizzato così il clima del momento: “Siamo diventati una nazione di pessimisti economici: la promessa che il duro lavoro sia premiato non regge più alla prova dei fatti”.

Per un’America che amava raccontarsi come laboratorio di ottimismo e mobilità sociale, è un ribaltamento culturale. E per un presidente che ha costruito il proprio brand sulla promessa di restituire ai “dimenticati” la loro fetta di prosperità, è un atto d’accusa devastante.

Il vantaggio democratico e l’onda lunga dei conti che non tornano

Se si passa dal terreno della percezione economica a quello politico, le conseguenze sono immediate. Un importante sondaggio nazionale attribuisce oggi ai candidati democratici un vantaggio di circa 14 punti sul voto per il Congresso nelle elezioni di metà mandato in arrivo, il margine più ampio registrato dagli anni immediatamente successivi alla prima ondata trumpiana.

In quella rilevazione, il tema dell’accessibilità economica – dal costo delle bollette alle spese sanitarie, fino ai mutui – viene indicato come priorità assoluta da quasi il 60% degli intervistati, davanti perfino ai diritti civili e ai temi di ordine pubblico. Gli elettori continuano a riconoscere alla destra un vantaggio su questioni come controllo delle frontiere, immigrazione e sicurezza urbana. Ma su costo della vita, salari, politiche climatiche e sanità la bilancia si sposta sempre più dalla parte dei democratici.

È come se l’elettorato dicesse: va bene parlare di muri e deportazioni, ma quando non arrivo a fine mese voglio sapere chi si occupa del mio stipendio, delle mie bollette, del futuro dei miei figli.

Un’America più estrema e meno affidabile

Nel quadro che emerge dai sondaggi, la presidenza Trump del secondo mandato appare sempre più estrema, illiberale e imprevedibile: dazi a raffica, guerre commerciali annunciate sui social, minacce di ritiro dai trattati internazionali, uso politico delle agenzie federali.

Questa instabilità ha due effetti a catena. Sul fronte interno alimenta una polarizzazione permanente che rende quasi impossibile costruire riforme di lungo periodo, soprattutto su scuola, sanità e infrastrutture. Sul fronte esterno mina l’affidabilità degli Stati Uniti agli occhi di alleati e investitori: in Europa cresce la tentazione di cercare un dialogo più stretto con la Cina, mentre nei mercati si moltiplicano i segnali di nervosismo per una Casa Bianca percepita come capace di cambiare linea economica dall’oggi al domani.

In questo contesto, il sogno americano – già logorato da due decenni di crisi, delocalizzazioni e precarietà – rischia di diventare un semplice slogan elettorale, buono per i comizi ma sempre meno credibile nelle cucine e nei salotti delle famiglie.

Il conto finale della stagione trumpiana

La fotografia dei sondaggi non è una sentenza definitiva, ma assomiglia a un avvertimento. Il secondo mandato di Donald Trump doveva essere, nelle sue intenzioni, la stagione della rivincita: dopo aver “ripulito il sistema”, l’ex tycoon avrebbe dovuto trasformarsi in garante della crescita, del lavoro, della sicurezza economica.

Oggi, però, i numeri raccontano altro: una maggioranza schiacciante di elettori convinta che l’economia stia andando nella direzione sbagliata; ceti popolari e minoranze etniche che si sentono schiacciati dal costo della vita; professionisti e redditi medio-alti che scoprono che sei cifre non bastano più a vivere tranquilli; giovani e famiglie che guardano all’idea di mobilità sociale come a un mito del passato.

Se il sogno americano è, prima di tutto, la fiducia che domani andrà meglio di oggi, allora la vera emergenza economica degli Stati Uniti non è solo nei numeri del Pil o nei grafici dell’inflazione, ma in questa frattura psicologica. Ed è proprio su questo terreno – quello della fiducia – che Trump, il presidente che prometteva di far “vincere” l’America contro tutti, sembra oggi più vulnerabile. 

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