Il linguaggio utilizzato dal Dipartimento di Stato americano non lascia spazio a interpretazioni. Si parla di “attivisti radicali”, di “censura delle opinioni americane”, di una presunta repressione della libertà di espressione. Parole scelte con cura, tipiche di una retorica ideologica che trasforma il dissenso in colpa e la regolazione democratica in un crimine.
Un potere privato che detta la linea politica
Il cuore della vicenda è uno solo: il potere smisurato delle grandi piattaforme tecnologiche. Un’oligarchia economica che negli Stati Uniti non si limita più a influenzare il governo, ma lo guida apertamente, ne orienta le decisioni, ne detta il lessico.
Quando Washington punisce un ex commissario europeo per aver promosso una legge dell’Unione, il messaggio è chiarissimo: le regole valgono solo se non disturbano gli interessi delle Big Tech. Se lo fanno, diventano “censura”.
È un rovesciamento semantico pericoloso, che svuota il concetto stesso di libertà. Perché qui non si difende la libertà di parola, ma la libertà di profitto. Non il pluralismo, ma l’assenza di vincoli. Non i cittadini, ma gli algoritmi.
Il caso Breton e la posta in gioco
Thierry Breton è stato uno dei principali architetti del Digital Services Act, la normativa europea che impone responsabilità, trasparenza e tutela dei diritti alle grandi piattaforme online. Una legge approvata democraticamente, applicata da istituzioni legittime, sostenuta da un ampio consenso politico.
Eppure, per l’amministrazione americana, quella legge rappresenta una minaccia. Non perché limiti la libertà di espressione, ma perché rompe l’asimmetria di potere tra colossi privati e istituzioni pubbliche.
Il fatto che insieme a Breton siano stati colpiti anche esponenti di organizzazioni civiche europee è ancora più inquietante. La società civile viene dipinta come un agente ostile, un nemico interno, un corpo estraneo da colpire. È una dinamica che richiama le stagioni più buie del maccartismo, aggiornate all’era digitale.
Un’America sempre meno democratica
Questo episodio non nasce nel vuoto. Si inserisce in un contesto più ampio in cui gli Stati Uniti mostrano tratti sempre più evidenti di autocrazia oligarchica. Il potere economico si salda a quello politico, le regole diventano opzionali, le istituzioni vengono piegate agli interessi di pochi.
In Europa, questo modello trova sponde precise: partiti populisti, destre radicali, movimenti che attaccano l’Unione europea proprio perché rappresenta l’ultimo grande spazio politico che prova a governare la globalizzazione invece di subirla.
Non è un caso che la retorica contro il Digital Services Act sia identica a quella utilizzata contro l’Unione europea: burocrazia, censura, élite. È una narrazione funzionale a delegittimare ogni forma di controllo democratico.
Perché l’Unione europea deve resistere e rispondere
L’Europa non può permettersi ambiguità. Non può arretrare. Difendere il proprio modello significa difendere la democrazia liberale in un mondo che scivola verso la legge del più forte.
Serve una risposta politica, giuridica e simbolica. Colpo su colpo. Perché accettare che un governo straniero sanzioni un ex commissario per aver fatto il proprio lavoro significa accettare un precedente devastante.
Non è solo una questione di visti o di diplomazia. È una battaglia sul futuro dell’ordine democratico. E questa volta, l’Europa non può limitarsi a spiegare: deve resistere, reagire e rivendicare.