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Il caso Almasri e il muro di Palazzo Chigi: Meloni attacca i giudici, difende la linea dura sull'immigrazione

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Il caso Almasri e il muro di Palazzo Chigi: Meloni attacca i giudici, difende la linea dura sull'immigrazione
Il 30 luglio scorso, Palazzo Chigi ha depositato al Tribunale dei ministri una memoria di difesa. Punto centrale: il caso Almasri rappresentava un pericolo “grave e imminente” per lo Stato. Il governo avrebbe agito in modo “legittimo”, si legge, per salvaguardare l’interesse nazionale. Un documento scritto dopo l’accesso agli atti dell’inchiesta e calibrato in ogni parola. Nessun passo indietro. Nessun dubbio sulle proprie scelte.

Il caso Almasri e il muro di Palazzo Chigi: Meloni attacca i giudici

Giorgia Meloni non si nasconde. Anzi, entra a gamba tesa. In un’intervista dai toni militanti, rivendica la responsabilità politica dell’azione governativa e respinge l’ipotesi di un’archiviazione parziale della sua posizione. “I miei ministri non governano a mia insaputa. Io non sono un Conte qualsiasi”. Il riferimento a Giuseppe Conte, ex premier, è tutto fuorché casuale. Meloni rivendica la paternità politica dell’operazione. Nessun alibi, nessuna delega in bianco.

Nordio, Piantedosi, Mantovano sotto il mirino

A finire al centro dell’inchiesta sono tre volti chiave dell’esecutivo: Carlo Nordio (Giustizia), Matteo Piantedosi (Interno), Alfredo Mantovano (Autorità delegata alla sicurezza). Per loro il Tribunale dei ministri potrebbe chiedere l’autorizzazione a procedere. La premier però si dice “sconcertata” dalla discrepanza: archiviare la sua posizione e mettere sotto accusa i suoi uomini sarebbe, dice, “un’operazione surreale”. La linea è chiara: se cade uno, cade l’intero impianto.

Lo spettro della giustizia “a orologeria”

Dietro l’inchiesta, per Meloni, si muove altro. “Vedo un disegno politico dietro alcune decisioni della magistratura, specialmente sull’immigrazione”, dichiara. È l’accusa più pesante: quella di un utilizzo selettivo, mirato, del potere giudiziario per ostacolare la politica migratoria del governo. Una dichiarazione che non lascia spazio a mediazioni. Lo scontro tra poteri dello Stato è aperto. E rischia di allargarsi.

L’immigrazione come terreno di scontro

Il tema non è solo giudiziario. È politico, strategico, identitario. L’immigrazione è il dossier su cui il governo Meloni ha costruito parte della sua identità. La premier non intende cedere di un millimetro. “Come se volessero frenare la nostra opera di contrasto all’immigrazione illegale”, dice. L’operazione Almasri, in questa chiave, diventa un atto simbolico: una risposta dura, rivendicata, usata per marcare il confine tra legalità e “buonismo”.

“Ho messo in conto le conseguenze”

Meloni ammette di aver previsto il rischio. “La riforma della giustizia va avanti a passi spediti, ho messo in conto eventuali conseguenze”. Il messaggio è doppio: non solo non ci sarà un passo indietro, ma ogni attacco rafforza la narrazione del governo come bersaglio del sistema. Un frame già visto, già sperimentato, efficace nell’elettorato. I processi, qui, diventano strumenti di legittimazione politica.

L’opposizione insiste, il clima si avvelena

Fuori dal Palazzo, le opposizioni chiedono chiarezza. La magistratura, almeno per ora, non arretra. Il fronte istituzionale è diviso. Le parole della premier spingono sull’acceleratore dello scontro. A sinistra si parla di “attentato alla divisione dei poteri”. Ma nella maggioranza, la compattezza regge. Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia si stringono attorno alla premier. Il governo si compatta, il clima si avvelena.

Una partita anche internazionale

Il caso non è solo italiano. Il nome di Almasri è finito nei dossier di agenzie internazionali, organizzazioni per i diritti umani, osservatori diplomatici. Alcuni parlano di espulsione arbitraria. Altri di rischio di trattamenti inumani. Roma però non arretra. “Abbiamo tutelato lo Stato,” dicono a microfoni spenti a Palazzo Chigi. “Se ci processano per questo, processano l’interesse nazionale.”

Palazzo Chigi chiude i ranghi

Il messaggio finale della premier è un avvertimento: “Non ci faremo processare per aver fatto il nostro dovere.” Una frase che fotografa il momento. Meloni si posiziona non come leader in difesa, ma come capo politico assediato eppure attivo. Nessuna ammissione. Nessuna crepa visibile. Il governo si muove con la logica del fortino: dentro, la compattezza della narrazione. Fuori, il sospetto di un attacco coordinato.
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