Tassi, occupazione e petrolio: a cosa guardano i mercati

- di: Richard Flax, Chief Investment Officer di Moneyfarm
 
La scorsa settimana l’attenzione dei mercati si è concentrata sui tassi di interesse, lasciati invariati sia dalla Federal Reserve statunitense che dalla Bank of England. Nonostante le mosse di entrambe le banche centrali fossero ampiamente previste, i mercati hanno reagito in modo piuttosto brusco, con il rendimento del decennale statunitense che è sceso di circa 40 punti base. Una reazione che può essere, in parte, ricondotta alle parole pronunciate dal presidente Powell nel corso della conferenza stampa post-riunione, che gli investitori hanno interpretato come il segnale di una fine ormai prossima del ciclo di rialzi dei tassi. 

I mercati hanno seguito con attenzione anche gli ultimi dati sull’occupazione negli Stati Uniti: il rapporto stilato mercoledì dall’agenzia di elaborazione delle buste paga ADP dipinge il quadro di un mercato del lavoro in rallentamento, una tesi supportata anche dai Non-Farm Payroll di venerdì 3 novembre, che registrano una leggera contrazione dei nuovi posti di lavoro e un lievissimo aumento della disoccupazione. Questi ultimi dati suggeriscono che la politica monetaria restrittiva della Fed potrebbe finalmente iniziare ad avere effetto, nonostante l’ultimo rapporto sul Pil Usa evidenzi una crescita economica ancora solida. 

Le ultime considerazioni riguardano l’entità di nuovo debito che il governo Usa sarebbe pronto ad emettere: il deficit di bilancio degli Stati Uniti è già piuttosto elevato in rapporto al PIL e si prevede crescerà ulteriormente, nonostante l’aumento del costo di emissione. L’attuale impasse politico rende inoltre difficile per il governo adottare le misure per la riduzione del deficit che pure sarebbero necessarie. Il Tesoro americano prevede un’emissione trimestrale di debito pari a 112 miliardi di dollari, una cifra inferiore alle aspettative di alcuni investitori che potrebbe aver contribuito all’impennata dei rendimenti a cui abbiamo assistito la scorsa settimana. 

Infine, mentre il conflitto in Medioriente non accenna ad esaurirsi, alcuni report mettono in evidenza quanto un peggioramento della situazione geopolitica potrebbe pesare sul prezzo del petrolio, che secondo la Banca Mondiale potrebbe arrivare a toccare i 150 dollari al barile in uno scenario di cosiddetta “grande perturbazione”. Considerando che negli ultimi vent’anni il prezzo del petrolio ha in diverse occasioni superato i 120 dollari al barile, queste stime non ci appaiono del tutto irrealistiche. Ancora più interessante è la questione del prezzo attuale del petrolio: oggi la quotazione del Brent è sostanzialmente sovrapponibile a quella del periodo precedente alla crisi in Israele. Diverse le ragioni che potrebbero essere alla base di questo fenomeno, tra cui il fatto che gli investitori petroliferi ritengono poco probabile un’escalation del conflitto. Ci auguriamo che questa interpretazione si dimostri corretta, ma occorrerà tenere monitorata da vicino la questione.
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