Chagall a Milano, le due anime dell’artista a confronto

- di: Barbara Bizzarri
 
Dici Chagall ed è subito Notting Hill, la diva americana che cerca di rassicurare il timido libraio inglese. Anche se qui non c’è la capra che suona il violino, il tempo stringe e conviene correre a Milano, se ancora non lo avete fatto, per andare a vedere Chagall e i suoi universi fluttuanti come in un sogno, con gli animali musici e quel senso di straniamento bello che sa offrire soltanto l’arte. Resta al Mudec fino al 31 luglio la mostra curata dall’Israel Museum di Gerusalemme, in cui sono esposte cento opere dell’artista, donate da amici e parenti. Il languore prende subito, già a guardare la locandina.

Lei sembra nuda e lui è vestito in un abbraccio trasfigurato dal blu che accende la nostalgia delle rose che non colsi.  Ma forse ci sono anche quelle, nascoste in un tripudio di fiori. La vera arte, come il vero dolore, rende muti. E così fa l’opera di Chagall, pittore e poeta, che sintetizza letteratura, folklore e simboli religiosi nella sua essenza composita: tradizione ebraica e civiltà russa da una parte, esperienze occidentali coi Fauves di Matisse e il primitivismo di Gauguin dall’altra. Il talento di incisore e illustratore di Chagall è illuminato nella mostra che espone le sue due anime e alcune serie di illustrazioni importanti, come le immagini poste a corredo della propria autobiografia e delle biografie della moglie, fondamentali per conoscere riti e credenze della religione ebraica professata dall'artista, e i lavori eseguiti per l'editore francese Vollard, che gli commissionò le illustrazioni per le Anime morte di Gogol e per le Favole di La Fontaine, colore da immaginare da una parte, furbizia plautina dall’altra. Gli animali che vede ondeggiare nei cieli hanno una vita nuova ed eterna, sono quelli che il nonno macellaio scannava nel retrobottega, con il rispetto per ogni creatura vivente, secondo le usanze ebraiche.

I percorsi dell’esposizione raccontano in opere le origini da Vitebsk, nell’attuale Bielorussia – sono un piccolo Chagall di Vitebsk, diceva di sé - , l’amore per la moglie Bella Rosenfeld, perduta troppo presto, gli anni di Parigi a dipingere nudo e magro, con la pioggia in casa e le tele per rattoppare il tetto, quando frequenta poeti che gli suggeriscono i titoli per i suoi quadri, i suoi amici Blaise Cendrars e Guillaume Apollinaire, quelli che passano per la porta soprannaturale e sanno nutrirsi di altrove come lui. “Se creo qualcosa usando il cuore, funzionerà”, scriveva, e poi “mia e soltanto mia è la patria dell’anima. Vi posso entrare senza passaporto e mi sento a casa”, anima come unica vera casa degli esuli, che nessuno può strappare via, trasfusa nelle pennellate vive che scivolano sulla tela per restituire ricordi, sogni, incanti, uniche armi per combattere il dolore e la morte.
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