Paolo Savona: "Le sfide che affrontano il mercato monetario e quello finanziario si vinceranno se cambieremo l’architettura istituzionale"

- di: Giuseppe Castellini
 

Il PNRR che potrebbe rappresentare in Italia la risposta antinflattiva, il Decreto Capitali e i timori di molti azionisti sulla figura del ‘Rappresentante designato’, la necessità dell’euro digitale e la fiducia sull’Italia. Intervista al Presidente della Consob, Paolo Savona.

Paolo Savona: "Le sfide che affrontano il mercato monetario e quello finanziario si vinceranno se cambieremo l’architettura istituzionale"

Presidente Savona, dal suo recente quarto Discorso al Mercato, pronunciato in qualità di Presidente della Consob, emergono una serie di elementi, fra i quali la necessità di un cambiamento dell’architettura istituzionale difronte alle sfide che debbono affrontare il mercato monetario e quello finanziario. Qual è il messaggio che ha voluto mandare con il Discorso al Mercato di quest’anno?

Le istituzioni sono inevitabilmente invecchiate: ormai, dal 1989, anno del crollo del Muro di Berlino, nel mondo ci sono state modifiche epocali. Nonostante gli interventi avvenuti in alcuni settori, compresa la nascita della moneta europea, la realtà è che il tipo di struttura organizzativa della gestione del risparmio, ovvero delle risorse necessarie per fare investimenti e finanziare le attività ordinarie, è rimasta ancorata al passato.
Dal 2008, anno della crisi finanziaria mondiale, le banche centrali si sono assegnate sempre di più compiti di stabilità finanziaria, guardando soprattutto alle borse valori, al debito pubblico e alla stabilità delle banche.

Di conseguenza è cresciuto maggiormente un legame tra la politica monetaria e il funzionamento dei mercati finanziari, che sono quelli che ci servono per lo sviluppo. Tutto ciò ha mutato la funzione di utilità, ovvero il modo in cui le banche centrali si comportano: anche le istituzioni stanno lentamente seguendo questo processo, ma devono almeno fare i conti con delle leggi vecchie e sulle quali occorre mettere le mani in via sperimentale.

Il mondo è cambiato e le leggi devono cambiare in funzione di questo mutamento, soprattutto le leggi europee di tipo ‘civil law’ portate in Italia dall’età napoleonica. I paesi anglosassoni, invece, si basano su leggi di tipo ‘common law’, ovvero il modo attraverso cui la realtà viene interpretata dai giudici per ogni singolo caso e l’insieme delle sentenze diventano orientamento legale. Da noi accade il contrario: il vincolo sull’orientamento ce lo fornisce la legge stessa. All’interno della Consob ho cercato di far riaffiorare questo problema in quanto, a mio avviso, rappresenta un punto cruciale. La realtà dei fatti è che non possiamo procedere con piccoli ritocchi, ma occorre perseguire un disegno molto più importante, con istituzioni che cambiano e lavorano insieme.

A suo parere il sistema europeo è pronto per affrontare questo salto di mentalità e di visione più aperta?

Se rispondessi che il sistema europeo non fosse pronto ci si dovrebbe disperare. E io non mi dispero. Pensiamo, per esempio, al PNRR o Next Generation EU: in questi casi siamo difronte a un massiccio intervento di politica fiscale, come la chiamiamo noi economisti, ma che in realtà è la politica di bilancio. Questi provvedimenti, come nel caso dell’Italia, potrebbero permettere l’uscita dalla crisi inflazionistica nella quale siamo entrati e, invece, vengono inseriti all’interno di leggi già esistenti e ci si accorge che non possono funzionare. Le vecchie leggi non sono più in grado di seguire un sistema in rapida evoluzione.

Perché il PNRR in Italia potrebbe essere la risposta antinflattiva?

Con il PNRR, spendendo di più, si ha un impulso che noi economisti chiamiamo esogeno, ovvero che viene dall’esterno, e questo impulso ha un tale impatto che potrebbe far girare l’economia compensando i danni provocati dall’inflazione. Io sono ottimista a riguardo, soprattutto è un fattore positivo che l’Europa si sia mostrata preparata nei momenti di difficoltà. Nonostante le mie critiche a come agisce la Bce e, soprattutto, a come si prendono alcune decisioni, sono e resto favorevole non solo a una cooperazione europea integrata, ma anche a delineare un obiettivo comune tra tutti i Paesi membri e di concorrere verso un’unica direzione. Questo obiettivo è indispensabile soprattutto in un mondo nel quale ormai decollano realtà demografiche ed economiche come la Cina e l’India, che sono assolutamente preponderanti in tutti i settori. Noi europei non raggiungeremo mai quel potere demografico ed economico.

E qui passiamo all’altro aspetto fondamentale: i popoli europei hanno bisogno della globalizzazione. Durante la guerra fredda, nonostante la Russia comunista, gli italiani potevano ugualmente andare in Russia a investire: oggi, invece, con l’inaccettabile invasione della Russia ai danni dell’Ucraina, è avvenuta una chiusura totale e, improvvisamente, la globalizzazione sta vivendo un’inversione di  tendenza. Ognuno sta cercando di portare avanti i propri interessi, ma questa visione è totalmente contraria a una idea di sviluppo comune.

Noi, dall’interno, dobbiamo cercare di cambiare e far evolvere le istituzioni e, per quanto concerne la politica estera, dobbiamo cercare di spingere il più possibile verso la globalizzazione in quanto il nostro sistema è basato sulle esportazioni; l’elasticità con la quale le imprese italiane, chiuso un mercato, ne hanno trovato subito un altro, è un fatto estremamente positivo.

L’Italia aveva un problema di bilancio dei pagamenti che era perennemente in passivo ma, da circa dieci anni, abbiamo invertito la tendenza che non è stata frenata nemmeno dallo shock derivante dall’aumento del costo dell’energia. Ora che il prezzo dell’energia è leggermente calato, stiamo continuando a registrare dei dati positivi. Per questo motivo la globalizzazione deve rimanere il nostro orientamento economico principale. Deve essere chiaro a tutti che, quando la politica si discosta dal modello di sviluppo e dagli interessi di lungo periodo, si paga un costo.

La politica monetaria non può spingersi oltre certi limiti; la politica fiscale, d’altro canto, vorrebbe attutire gli effetti negativi, ma non può farlo a causa di problemi di bilancio, di deficit e in più con un indebitamento che costa di più. La politica fiscale e la politica monetaria tradizionali sono vincolate, l’unico programma che esce fuori da questi schemi è il PNRR.

Abbiamo letto la sua audizione alla competente commissione del Senato sul Decreto capitali, che ha avuto un suo lungo iter: il suo giudizio è favorevole, ma rimangono alcuni punti sui quali lei ha posto l’attenzione come la responsabilità della Consob e la questione del cosiddetto “Rappresentante designato”. Un tema, questo, che tiene in agitazione molti azionisti, i quali temono un vulnus alle loro prerogative.

Le caratteristiche principali di questo disegno di legge sono di due tipi: da un lato è cercare di avere, volenti o nolenti, la legislazione che hanno gli altri Paesi. Se non siamo in grado di cambiare la legislazione, i fondi fuggono e quelle si quotano altrove. Il secondo obiettivo è indurre le piccole imprese, soprattutto le imprese che si trovano nella seconda sezione della Borsa italiana, di passare alla prima sezione e offrire loro, in questo modo, qualche vantaggio. In questo contesto la rappresentanza delle minoranze è molto importante, ciò che un tempo assumeva la definizione di democrazia societaria. Dobbiamo cercare di stimolare il capitalismo familiare a tramutarsi in capitalismo societario, senza mettere in serie difficoltà la struttura familiare.

Le decisioni che stiamo prendendo sono nell’ottica secondo cui le minoranze continuano ad avere una rappresentanza: non possiamo permetterci di avere legislazioni diverse dal resto del mondo.
In Europa occorrono 27 voti per cambiare le direttive quindi, in alcuni casi, si è costretti a cominciare a lavorarci consapevoli del fatto che questo richiede più tempo.

La figura del “Rappresentante designato” venne introdotta durante la pandemia. Con questa figura si ha un’eccessiva restrizione delle prerogative e una mancanza di confronto tra gli azionisti?

Ormai il mondo si sta trasferendo nell’infosfera. E, come è noto, io ho scritto proprio un libro su questo: “Geopolitica dell’infosfera. L’eterna disputa tra Stato e mercato/individuo nel Nuovo Ordine Mondiale Digitale” (Rubettino Editore). Sta avvenendo un passaggio, in tutti i settori, dal classico e tradizionale contatto e confronto in presenza ai collegamenti in videoconferenza.

Questo passaggio sta avvenendo anche in Consob. Il problema che viene riscontrato, in alcuni casi, è come permettere a tutti di collegarsi e partecipare. Per questo motivo è stato escogitato il sistema della rappresentanza: sono state create delle istituzioni intermedie che delegano un singolo per evitare che, in videoconferenza, si presentino centinaia di persone con i problemi che ne deriverebbero. Non si tratta di una situazione definitiva, ma semplicemente dettata dal fatto che tutto il mondo e qualsiasi tipo di attività si sta spostando nell’infosfera.

Questo passaggio potrebbe stimolare meno gli investitori istituzionali, sapendo che poi la loro voce in capitolo è minore?

L’importante, per gli investitori istituzionali, è partecipare al dibattito: perché non dovrebbero accettare una struttura intermedia? Coloro che hanno delle buone idee e delle istanze fondate possono arrivare e presentarle comodamente al vertice. Se, al contrario, si cerca di influenzare l’attività, inserendo magari un proprio delegato di fiducia o cose simili, è un altro discorso: si tratta del principio della stanza dei bottoni che non esiste più.

Tornando al discorso sull’inflazione, come tutto ciò sta impattando sulle criptovalute? Ogni tanto si stente parlare di euro digitale. A che punto siamo al riguardo?

Dal mio primo Discorso in Consob, nel 2019, ho sottolineato le azioni che la Consob avrebbe dovuto compiere per essere presenti nell’infosfera. Non nego di aver trovato delle resistenze al riguardo, perché questo significava prepararsi a un qualcosa di nuovo, ma non possiamo fare a meno di prepararci all’evoluzione del mondo, perché questa nuova visione influenzerà tutti i campi, compresa l’inflazione.

La mia tesi riguardo l’inflazione è che la moneta deve essere unica e abbiamo un’occasione d’oro che è l’euro digitale. In merito, anche la soluzione che ci propongono è transitoria: con l’euro digitale, la moneta viene interamente detenuta sotto il controllo delle banche centrali, mentre oggi la quantità dei depositi dipende dal credito concesso dalle banche attraverso le moltiplicazioni. Con la moneta unica digitale si semplifica il sistema e la banca centrale ha un effetto diretto sulla liquidità, senza dover passare necessariamente attraverso l’ampliamento o la riduzione del credito bancario. Come scrisse Minsky per le banche ordinarie, anche le banche centrali sono diventate ‘serve di due padroni’, ovvero i propri compiti e la stabilità finanziaria. Le banche, con l’euro digitale, si dedicherebbero all’investimento del risparmio ed è in questo ambito che nascono le cryptocurrency non come moneta, ma come attività tokenizzate. A questo punto, infatti, bisogna fare un passo in avanti: la tokenizzazione significa che gli operatori si muoverebbero autonomamente e autocertificherebbero la propria proprietà. In questo contesto, assume un ruolo di cruciale importanza la cybersecurity, che è un fattore che avevo già affrontato, in una precedente intervista per Italia Informa, per quanto riguarda la digitalizzazione ordinaria.

In passato, quando si verificava un problema costituzionale o tributario, si costituiva un comitato di persone competenti che presentavano al governo e al parlamento le loro soluzioni e i parlamenti avevano un documento su cui lavorare che aveva la sua organicità. Oggi manca questa organicità di movimento. Nel caso del Decreto capitali è avvenuta questa organicità di movimento che ha prodotto dei risultati: abbiamo avuto, infatti, scambi all’interno del Mef, guidati dal Sottosegretario Federico Freni, poi un convegno alla Bocconi al quale hanno partecipato tutte le realtà interessate, compresa la Commissione europea e l’Ocse, per poi recarci in Assosim a discuterne. Dal dialogo deve venire fuori una soluzione, non un conflitto o la protezione di un interesse personale. Occorre ricordare, inoltre, che ogni compromesso ha un costo.

Mettiamo a confronto la Consob con la statunitense Sec: cosa ha la Sec che non ha la Consob?

La Sec ha più poteri regolamentari: grazie alla common law le decisioni singole e l’insieme delle decisioni stesse diventano leggi e, per questo motivo, possono essere modificate più frequentemente.

Ma questo discorso, più che la Consob, riguarda la Pubblica Amministrazione. Nel governo Ciampi, nel quale annoveravamo illustri giuristi, discutevamo proprio di questo: si doveva regolamentare tutto oppure lasciare più responsabilità affidando poteri ai rappresentati dello Stato? Io, all’epoca, con un veloce calcolo avevo individuato ben 300 centri di interesse di cui lo Stato doveva e deve interessarsi. Nella mia visione, a ciascun centro d’interesse doveva essere assegnato un Direttore Generale con un budget a disposizione e indicazioni per raggiungere gli obiettivi in un determinato arco temporale. Da Segretario Generale della Programmazione ho fatto parte del cda delle partecipazioni statali e chiesi, non riuscendo, che ogni anno le unità delle partecipazioni statali, che chiudevano in passivo, avrebbero dovuto presentare questo risultato allegando le dimissioni. Lo stesso processo dovrebbe avvenire nella Pubblica Amministrazione. Sarà dura, forse impossibile, ma il mondo è fatto anche di utopie. D’altronde, in questo modo abbiamo salvato l’industria italiana: gli imprenditori hanno preso di petto la gestione delle imprese, rendendosi indipendenti dalla volontà politica e apportando innovazioni tecnologiche, salvando di fatto le imprese e regalando al paese Italia dieci anni di attivo sulla bilancia dei pagamenti.

Nel suo recente Discorso al Mercato lei ha concluso con una nota di ottimismo, affermando che l’Italia ha affrontato tante situazioni difficili, ma ne è sempre uscita dimostrando di sapersi impegnare.

Guido Carli, all’epoca, fu della mia stessa idea: l’Italia ce la farà e così sottoscrisse il Trattato di Maastricht. Nel discorso alla Camera dei deputati del 1991, Francesco Cossiga dichiarò che le imprese private ce l’avrebbero fatta a superare le difficoltà, mentre la Pubblica Amministrazione ne avrebbe incontrate di maggiori. Ed è esattamente ciò che successo. Ritornando ai giorni nostri: la crisi del 2008 è stata drammatica in quanto 10/15% delle imprese sono scomparse e, inoltre, sono avvenuti profondi mutamenti nelle banche in un momento di crisi finanziaria molto pesante. Ma, anche in questo caso, ce l’abbiamo fatta e ciò perché, ne sono convinto, l’Italia possiede risorse e materiale a disposizione a cominciare da un risparmio elevato, dalla capacità di esportare e anche dalla capacità stessa dei cittadini di reggere agli shock e adattarsi di conseguenza. Alcune famiglie sono più in difficoltà di altre, questo è innegabile, ma sono convinto che, come paese, saremo in grado di affrontare ancora una volta queste complessità.

Nello scenario europeo l’Italia cresce meno, inevitabilmente, rispetto al 2021 e 2022. Ma non sfigura. La Germania, invece, è in recessione: com’è attualmente la situazione tedesca?

I tedeschi sono più rigidi, noi italiani siamo più resilienti. La Germania ha un sistema più organizzato del nostro sotto tutti i punti di vista, ma proprio per questo è più rigido e non pronto ad attutire delle crisi impreviste come la crisi inflazionistica che li terrorizza. Noi saremo più incomprensibili, soprattutto per chi ci guarda dall’esterno, ma alla fine ce la facciamo. Il termine ‘resiliente’, adottato nel PNRR, sottolinea proprio le caratteristiche più forti di questo paese: ‘resilienza’ è un termine latino che rappresenta la capacità dei metalli sottoposti a shock di non rompersi e così è la nostra società. Possiamo essere disordinati, ma difficilmente ci rompiamo.

Facciamo un salto in avanti di dieci anni: come vede messe l’Italia e l’Europa?

Sarei superficiale se rispondessi a questo quesito. Tutto dipende da due fattori: il primo è ritrovare la strada della globalizzazione e il secondo è l’evoluzione del conflitto bellico, la vera e più grande incognita che abbiamo.

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