Il tocco di Pigmalione - Rubens incanta Roma

- di: Samantha De Martin
 
FOTO: Pieter Paul Rubens, Agrippina e Germanico, Olio su tavola, 1614 c., 57 x 66.4 cm, Andrew W. Mellon Fund, National Gallery of Washington

Fino al 18 febbraio una mostra alla Galleria Borghese inaugura la seconda tappa di
RUBENS! La nascita di una pittura europea, un grande progetto realizzato in collaborazione con Fondazione Palazzo Te e Palazzo Ducale di Mantova.

Il tocco di Pigmalione - Rubens incanta Roma

Un’energia vitale si sprigiona dai muscoli di Ercole intento a strangolare il leone nemeo, definiti a matita rossa con uno slancio che incanta. In questo disegno di Pieter Paul Rubens lo sforzo muscolare michelangiolesco, impensabile senza la lezione sulla forza di Leonardo, è evidente e già prelude alle torsioni di Bernini, che saranno poi quelle della scultura barocca.

È un intreccio di lezioni e di rimandi tra i linguaggi della grande arte la mostra che la Galleria Borghese dedica al pittore fiammingo considerato il “padre spirituale” di quei maestri italiani tra i quali Gian Lorenzo Bernini.

Al maestro di Siegen che ha saputo donare nuova linfa vitale al mito antico, senza mai perdere di vista la realtà del presente in cui stava vivendo, Roma dedica fino al 18 febbraio il percorso Il tocco di Pigmalione. Rubens e la scultura a Roma, a cura di Francesca Cappelletti e Lucia Simonato. L’appuntamento romano inaugura la seconda tappa di RUBENS! La nascita di una pittura europea, un grande progetto realizzato in collaborazione con Fondazione Palazzo Te e Palazzo Ducale di Mantova che ripercorre i rapporti tra la cultura italiana e l’Europa attraverso gli occhi del maestro della pittura barocca.

Ma chi era Pigmalione?

Il leggendario re-scultore di Cipro, innamoratosi di una sua opera, ritenendola l’espressione più alta della femminilità, al punto da dormirle accanto nella speranza che un giorno prendesse vita, aveva pregato Afrodite di concedergli in sposa la scultura creata con le sue mani rendendola una creatura umana.

Oltre 50 opere a confronto con i capolavori della Galleria Borghese

Allo stesso modo Rubens, all’interno dei suoi disegni e delle sue tavole, ebbe la capacità di trasformare il marmo inerte dei predecessori in vibrante materia pittorica con il cosiddetto “tocco di Pigmalione”.

La sensazione del visitatore che attraversa le sale dalla Galleria Borghese, dove oltre 50 opere provenienti dai più importanti musei al mondo – dal British Museum al Louvre, dal Met, alla National Gallery di Washington – dialogano con i capolavori della collezione permanente, è di insolita meraviglia. Lungo il percorso si respira la novità dirompente dello stile del pittore, ma anche la sua capacità di rileggere esempi rinascimentali confrontandosi con i contemporanei, approfondendo aspetti e generi nuovi.

“Calamita per gli artisti del Nord Europa fin dal Cinquecento – spiega Francesca Cappelletti, direttrice della Galleria Borghese e curatrice della mostra – la Roma di Rubens, fra i pontificati Aldobrandini e Borghese, è il luogo dove studiare ancora l’antico, di cui si cominciano a conoscere i capolavori della pittura, con il ritrovamento nel 1601 delle Nozze Aldobrandini. È il momento della Galleria Farnese di Annibale Carracci e della cappella Contarelli di Caravaggio, di

cui si stordisce una generazione. Attraverso gli occhi di un giovane pittore straniero come Peter Paul Rubens guardiamo ancora una volta all’esperienza dell’altrove, cerchiamo di ricostruire il ruolo del collezionismo, e della collezione Borghese in particolare, come motore del nuovo linguaggio del naturalismo europeo, che unisce le ricerche di pittori e scultori nei primi decenni del secolo”.

Il 9 maggio del 1600 Rubens lasciò Anversa per puntare verso sud, alla volta di Mantova, al servizio di Vincenzo Gonzaga. Fu a Roma due volte: dall’agosto del 1601 alla primavera del 1602, dalla fine del 1605 all’ottobre del 1608. E nella città eterna ammirò in maniera compulsiva l’arte antica.

Il pittore che amava l’antico

L’ipertrofia muscolare degli eroi rubensiani è contagiosa. Forse perché proviene dallo studio delle medesime statue antiche, dal Laocoonte all’Ercole Farnese.

Stimato uno dei più grandi conoscitori di antichità romane, Rubens ha lasciato disegni che rendono vibranti le opere che studia, aggiungendo movimento e sentimento ai gesti e alle espressioni.

E sono proprio questi disegni, forse molto più delle tavole, che il pubblico apprezza in mostra.

Perché soprattutto in questi disegni mette in atto quel processo di vivificazione del soggetto presente anche nel ritratto. Marmi, rilievi ed esempi celebri di pittura rinascimentale escono ravvivati dal suo pennello, come anche le vestigia del mondo antico. Viene spontaneo soffermarsi sulla famosa statua dello Spinario che Rubens disegna, a sanguigna, e poi con carboncino rosso, riprendendo la posa da due punti di vista diversi. Il disegno sembra essere stato realizzato da un modello vivente invece che da una statua, tanto da far immaginare che il pittore abbia utilizzato un ragazzo atteggiato come la scultura. Questo processo di animazione dell’antico sembra anticipare le mosse di artisti che, nei decenni successivi al suo passaggio romano, verranno definiti barocchi.

“In questa sfida tra le due arti - afferma Lucia Simonato, curatrice della mostra - Rubens dovette apparire a Bernini come il campione di un linguaggio pittorico estremo, con cui confrontarsi”.

La mostra ci dice di più sul controverso rapporto tra i capolavori di Bernini e il naturalismo di Rubens, scandagliando il dialogo vivace con Roma che il maestro vissuto ad Anversa non avrebbe mai interrotto. E questo accadde anche grazie al soggiorno in Italia di suoi allievi come Antoon van Dyck, e grazie ai costanti rapporti epistolari con eruditi in contatto con la città papale e con giovani artisti che da lì e da altre parti d’Italia gli inviavano copie grafiche di opere che non aveva visto di persona. Attraverso il suo “tocco di Pigmalione” Rubens rivoluziona la grafica antiquaria: dalla filologia un po’ ingessata del Cinquecento si arriva alle sfolgoranti raccolte seicentesche dove l’antico torna in vita.

Fin da giovane si abitua a scegliere i suoi modelli e a rielaborarli, confrontandosi senza tregua con i maestri del Cinquecento e con i suoi contemporanei.

Bernini e la lezione di Rubens

Ed eccolo Rubens in mostra accanto a Tiziano, Caravaggio e Bernini.

Nel 1622, quando la Susanna di Rubens sembra già nella collezione del cardinal Scipione, il giovane scultore sta completando il Ratto di Proserpina, per il quale la critica ha più volte invocato un debito nei confronti del naturalismo di Rubens. I gruppi borghesiani di Bernini, realizzati negli anni venti, rileggono celebri statue antiche per donare loro movimento, traducendo “in carne” il marmo.

Impossibile lasciare la mostra senza perdersi il trionfo di nervi, muscoli e vene pulsanti di San Cristoforo e Adone, senza affondare lo sguardo tra le pieghe della pelle delle Tre grazie, senza incrociare gli sguardi penetranti di Agrippina e Germanico. Tra i ritratti spicca quello di Ludovicus Nonnius. I baffi del medico e antiquario di origini portoghesi sembrano uscire dalla tavola. E al pubblico verrebbe voglia di sfiorarli. Potere del vero, bellezza.

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Italia Informa n° 1 - Gennaio/Febbraio 2024
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