Alatri: tra mura ciclopiche e abbazie medievali

- di: Teodosio Orlando
 
Benché forse meno visitato e apprezzato della zona settentrionale, ossia della cosiddetta Tuscia, anche il Basso Lazio offre tesori architettonici e panorami incantevoli che sicuramente meritano un’attenta visita. E poche cittadine come Alatri presentano ai visitatori una sintesi e un connubio mirabile di questi tesori. Situata sopra un colle sulle prime pendici dei Monti Èrnici, Alatri è una città che può legittimamente contendere a poche altre la palma del più antico insediamento urbano del Lazio, come testimoniano le mura ciclopiche e la sua acropoli, peraltro perfettamente armonizzate con l’abitato medioevale. In latino veniva designata con il nome di Alatrĭum o Aletrĭum (nome testimoniato anche in greco antico nella forma Ἀλέτριον): tramite il locativo Alatrĭi, ha dato come esito il toponimo moderno. Le sue origini sono spesso collocate intorno al sec. VI a.C., ma è verosimile che un abitato di una certa consistenza sorgesse già nella prima età del bronzo, all’inizio del II millennio a. C., attribuito all’antico popoli degli Ausonî. Fu una delle città principali del popolo degli Èrnici (in latino Hernĭci, antica popolazione nel bacino del fiume Sacco, alleata con Roma già ai tempi di Tarquinio il Superbo) e una delle cinque città “saturnie” il cui nome incomincia con A (le altre sono Arpino, Anagni, Arce, Atina). Perché “saturnie”? Perché una leggenda molto diffusa attribuiva loro una fondazione da parte del dio Saturno, durante l’età dell’oro. Ad esse si aggiunse anche Ferentino.

Non si unì ad altre città del Lazio nelle guerre italiche contro Roma, cosa che le valse una notevole prosperità, come municipio insigne. Infatti, alla fine del IV secolo a. C. una parte degli Ernici si unì agli Equi e ai Marsi durante le guerre sannitica ed etrusca (cfr. Tito Livio, Ab urbe condita IX, 42-43); ma vennero sconfitti nel 306 dal console Quinto Marcio Tremulo, che sciolse la Lega ernica. «Alatri, Ferentino e Veroli, rimaste fedeli, ottennero singoli trattati di alleanza con Roma, con la facoltà di mantenere le proprie leggi, poiché avevano preferito questa condizione alla cittadinanza romana, e fu concesso il diritto di matrimonio reciproco, che per parecchio tempo conservarono esse sole fra gli Ernici» («Hernicorum tribus populis, Aletrinati Verulano Ferentinati, quia maluerunt quam civitatem, suae leges redditae conubiumque inter ipsos, quod aliquamdiu soli Hernicorum habuerunt, permissum»), come ci tramanda Livio; alle altre città venne invece concesso lo status di civitas sine suffragii latione, ossia senza diritto di voto. Nel secolo VI d.C. fu devastata dai Goti di Totila durante la guerra con Bisanzio. Ma poi risorse col nome di Civitanova; nel 1165 fu espugnata da Cristiano di Magonza, cui fu in seguito sottratta da Gilberto e Riccardo di Gaia de’ Normanni. Dopo aver resistito agli assedi degli imperatori Enrico VI di Svevia (1186) e Federico II (1243), venne amministrata dai Conti di Segni e dal 1389 direttamente dalla Chiesa, che la confermò come sede vescovile.

Visitando la città si rimane ovviamente colpiti, anche a distanza, dall’acropoli e dall’imponente cerchia delle mura ciclopiche (con torri medioevali e restauri), lunga due chilometri e alta fino a tre metri, il più grandioso e meglio conservato complesso del genere esistente in Italia. Ma passeggiando nelle vie strette e tortuose, si trovano esempi di rilievo di architettura medioevale, che conferiscono alla cittadina la sua caratteristica atmosfera. Nelle arterie principali predomina l’arco gotico trecentesco, mentre nelle vie secondarie regna la porta architravata romanica. All’ingresso dell’abitato si apre la piazza della Libertà (con il consueto monumento ai Caduti), nella quale, di fronte, è visibile un bel tratto di mura ciclopiche poligonali, completate da mura medioevali con due torri quadrilatere (una delle quali sistemata come casa di abitazione): la cinta muraria, databile tra il IV e il II secolo a.C. (ma probabilmente iniziata già in epoca preromana), fu in gran parte ricostruita a due riprese nel medioevo, mantenendo pressoché intatto il suo circuito di circa 2 km con cinque porte principali e numerose postierle: queste ultime (dal latino tardo postĕrŭla, «porticina di dietro», diminutivo femminile di postĕrus «che sta dietro») sono piccole porte aperte in luogo nascosto e distante dalle porte principali, al fine di assicurare una via di comunicazione fra l’interno e l’esterno della cinta, da utilizzarsi in speciali circostanze (il vocabolo si trova spesso nella letteratura italiana del XIX secolo: «uscita dalla pustierla del castello prima dei vespri, come avea riferito l’ortolano, non era più ritornata» - Ippolito Nievo, Le confessioni di un italiano).

Svoltando a destra nell’alberato viale Emanuele Filiberto duca d’Aosta, si arriva poi in via Battisti, che sfocia nella pittoresca piazza Santa Maria Maggiore, con al centro la fontana detta Fonte Pia, a ricordo di Pio IX che la fece costruire. Di fronte è la chiesa di San Maria dei Padri Scolopi, eretta verso la metà del ‘700, con alta, imponente facciata a due ordini, che presenta, nel coronamento, influssi borrominiani, presenti anche nell’armonioso interno adorno di eleganti coretti. A destra, sul lato d’ingresso, si trova il grande, neoclassico Palazzo Comunale (1863), oltre il quale si scorge il fianco della chiesa romanico-gotica di Santa Maria Maggiore, di probabili origini paleocristiane ma risalente nelle forme attuali al XII secolo, con facciata adorna da tre portali (nelle lunette si scorgono affreschi deperiti del ‘400, che meriterebbero un restauro) e da un grande e stupendo rosone a traforo, singolare per le nervature che disegnano, nel mezzo, un quadrato; a destra della facciata si eleva il turrito e merlato campanile, a pianta rettangolare e con due piani di bifore gotiche, doppie nei lati lunghi. L’interno, preceduto da un nartece, è a tre navate divise da robusti pilastri reggenti archi romanici e alternati vani, affiancati da mezze colonne sulle quali sono impostati slanciati archi ogivali traversi. Nella prima cappella sinistra, dietro un’acquasantiera romanica, si trova la cosiddetta “Madonna di Costantinopoli” (sec. XII-XIII), gruppo ligneo policromo intagliato e dipinto da un artista romanico della fine del sec. XIII; nella cappella in fondo alla navata sinistra è collocata la trecentesca, venerata immagine della Madonna della Libera Alatri.

Di fronte a Santa Maria Maggiore si stacca la via Matteotti che raggiunge corso Vittorio Emanuele; dopo aver superato una casa medievale con un piano di bifore romaniche, si continua, all’incrocio, direttamente, nella via del Duomo che porta sull’Acropoli (502 metri di altezza), risalente al sec. IV a.C., il più perfetto e meglio conservato esempio esistente in Italia di costruzione poligonale, con pianta a trapezio allungata da Est a Ovest. Le mura, erette tra il IV e il II secolo a.C. (ma la datazione è dibattuta) su una preesistente fortificazione, a grandi blocchi di calcare locale, sono conservate quasi perfettamente in tutto il loro perimetro e hanno due porte. Se ne fa il giro percorrendo la strada esterna, detta via Gregoriana, che fu tracciata nel 1843 in occasione di una visita di Gregorio XVI. Particolarmente impressionante è l’angolo a Sud-Est, altissimo, di 14 filari di enormi massi. Accanto, preceduta da una scalinata, è la Porta di Civita, la maggiore, alta 4.50 metri e larga 2.68, con l’architrave formato da un grandissimo monolito di 3.50 metri. Nel lato opposto, a Nord, vi è la Porta Minore, detta Grotta del Seminano, nel cui architrave sono scolpiti dei phalli, e che conduce anch’essa al piano superiore dell’Acropoli. Nelle altre parti delle mura sono frequenti i massi di oltre 3 metri di lunghezza, ma nessun particolare di questa formidabile, unica fortezza eguaglia l’impressione della porta maggiore per le dimensioni dei suoi massi (uniti senza calce e ben combacianti fra di loro), eccezionali anche fra le stesse opere poligonali, soprattutto per la semplicità delle forme ridotte alle linee essenziali: sembra un colossale architrave monolitico. Il vastissimo piano livellato dell’Acropoli costituisce un immenso piazzale alberato e occupato solo in parte dal Duomo e dall’Episcopio. Da lì si può godere di una stupenda vista che spazia fino a Frosinone e Vico nel Lazio.

Sulla spianata dell’acropoli si leva, preceduta da scalinata, la mole del Duomo (San Paolo), eretto prima del Mille, rifatto tra ‘400 e ‘500, dall’alta, imponente facciata secentesca percorsa da paraste e terminante con un attico; a sinistra sorge il tozzo campanile sormontato da un cupolino schiacciato. L’interno, a tre navate, custodisce, nella cappella a sinistra dell’altare maggiore, il sepolcro di San Sisto I papa, traslato ad Alatri nel 1132. Connubio inquietante tra cristiano e pagano è invece la sede della casa del sagrestano, che sorge su un tratto rettilineo di mura ciclopiche, probabilmente l’altare dei sacrifici dell’antica acropoli. Ritornando nel paese, è d’obbligo una puntata al chiostro del convento di piazza Regina Margherita, trasformato in spazio culturale per mostre, ma dove è stato casualmente scoperto nel 1996 un affresco databile al XIII-XIV secolo raffigurante “Cristo nel labirinto”, singolare tema iconografico di origine e significato ignoti; lo precedono un ambiente affrescato con un velario e una serie di simboli geometrici e floreali. Salendo per la via San Silvestro, si raggiunge  la chiesa medioevale di San Silvestro, costruita alla fine del X secolo, dal suggestivo, asimmetrico interno a 2 navate: custodisce all’interno e nella cripta affreschi del XIII-XVI secolo.

Subito dopo, a destra, preceduto da una casa-torre di epoca romanica, è il grande Palazzo Gottifredo (detto anche Le Case Grandi), costruzione gotica del sec. XIII, imponente e severa, con due piani di bifore, dei quali il primo manomesso. Strutturato come una casa-torre, ospita il Museo Civico archeologico (a cui è stata aggiunta di recente una sezione demoantropologica), che custodisce numerose epigrafi romane tra le quali quella fatta eseguire in Alatri dal magistrato Lucio Botilieno Varo, censore del periodo repubblicano. Tra i reperti, un bronzetto proveniente dall’acropoli e pitture del II-I secolo a.C., provenienti da una domus in piazza S. Maria Maggiore, luogo del Foro. Lasciando Alatri, è d’obbligo una visita a Fumone, borgo (m 783, ab. 2000 circa), arroccato e pittoresco, che si adagia su un colle conico da cui la vista spazia dai monti Albani alla valle del Liri. Ci si muove tra case e strade di sassi, in un contesto curatissimo e organizzato per un turismo d’élite, con locali e cantine, dove si potrà gustare la cucina locale, compiendo un’esperienza gastronomica che ci metterà in contatto con la robusta genuinità di alcune prelibate pietanze: dal pane cotto a legna ai salumi (a partire dal prosciutto di Guarcino), dai legumi (cannellini di Campoli) ai pecorini (Piciniasco Dop), alle mozzarelle (di Amaseno), dall’olio al vino (Cesanese del Piglio Docg, Cabernet di Atina, Passerina e Maturano). 

Nella Rocca, menzionata già nell’XI secolo, morì nel 1296, dopo aver abbandonato il soglio, papa Celestino V, ossia l’abate Pietro da Morrone, ricordato da Dante Alighieri come “colui che fece per viltade il gran rifiuto” (Inferno, III, vv. 59-60) e descritto come una personalità tormentata da Ignazio Silone nel romanzo L’avventura di un povero cristiano (1968): oggi se ne visitano i saloni, con cimeli e arredi, soprattutto ottocenteschi, della famiglia dei proprietari, i marchesi Longhi De Paolis, senza trascurare il panoramico giardino pensile all’italiana realizzato nel ‘600. Infine, tra i luoghi meno conosciuti e più affascinanti nei pressi di Alatri, a tre chilometri di distanza, figura sicuramente l’abbazia di San Sebastiano, che sorge su una spalla del Monte Pizzuto, circondata da fitti uliveti. Ancora oggi, un antico acquedotto romano, fornito nell’interno di una conduttura di terracotta a tenuta forzata, assicura all’abbazia l’acqua di un’abbondante sorgente, attraverso la valle del fiume Cosa. Una forte tradizione vuole che l’abbazia sia stata fondata dal patrizio Liberio (Petrus Marcellinus Felix Liberius), contemporaneo di Cassiodoro e, come lui, uno dei più eminenti uomini politici dell’Italia del VI secolo, invasa dagli Ostrogoti. Liberio nacque probabilmente nell’Italia settentrionale intorno al 465, al crepuscolo dell’impero. Da giovane, prestò servizio presso il re barbaro Odoacre, al quale rimase fedele anche dopo la sua sconfitta per mano di Teodorico, nel 493. Ma sorprendentemente, il nuovo re lo nominò prefetto del pretorio d’Italia, la principale carica amministrativa del governo.

In questo ruolo si distinse per l’efficiente riscossione delle tasse e per la prudenza con cui gestì l’insediamento delle truppe barbariche. Dopo un periodo in Gallia, dove si favoleggia di una sua guarigione miracolosa da una ferita ricevuta da un soldato visigoto, decise di fondare due monasteri, uno dei quali sorse appunto nel Lazio meridionale. Ne nominò abate Servandus, un diacono, la cui responsabilità per la costruzione dell’abbazia ci è stata tramandata da Gregorio Magno. Del resto, i dettagli costruttivi e gli aspetti della pianta e dell’elevazione suggeriscono una datazione al VI secolo. Per non parlare di un’iscrizione dedicatoria incisa in un altare medievale più tardo, ubicato nella cappella e ricavato dai resti di un sarcofago a colonna del III secolo. Qui un monaco, Tommaso, si prende il merito dell’altare e spera nella salvezza per intercessione di un martire (presumibilmente Sebastiano) e di un “santo” Servandus. Ritornando sulla via di Alatri, si potrà fruire di un magnifico panorama. Per citare lo scrittore inglese Norman Douglas, autore di un diario di viaggio dei primi anni ‘20 del secolo scorso: «Per una breve passeggiata dopo colazione nulla è paragonabile a quello spazio verde sulla cima della cittadella. Mi ci incammino lentamente ogni mattina, per godermi il panorama e meditare sulla vanità dei desideri umani. Quanto meno avete visto località come Tirinto, tanto più rimarrete stupiti da questa imponente e misteriosa fortezza. Quel portale, quei blocchi: quali Titani li hanno collocati al loro posto? Bene, ora abbiamo imparato qualcosa su quei Titani e sui loro metodi. Da questo punto si può vedere l’antica strada romana che conduceva ad Alatri; essa si inerpica sulla collina in modo diretto, intersecando l’ampia “Via Romana” moderna - un sentiero per capre, oggi».

[For a short after-breakfast ramble nothing is comparable to that green space on the summit of the citadel. Hither I wend my way every morning, to take my fill of the panorama and meditate upon the vanity of human wishes. The less you have seen of localities like Tiryns the more you will be amazed at this impressive and mysterious fastness. That portal, those blocks – what Titans fitted them into their places? Well, we have now learnt a little something about those Titans and their methods. From this point you can see the old Roman road that led into Alatri; it climbs up the hill in straightforward fashion, intersecting the broad modern “Via Romana” – a goat-track, nowadays].

(Norman Douglas, Alone, New York, McBride & Company, 1922, p. 245).

 
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