“Le bombe delle sei non fanno male”, cantava Antonello Venditti in una delle sue celebri canzoni. Un'immagine soave, quasi nostalgica, che evocava quelle deliziose bombe alla crema, capaci di allietare anche il più tribolato dei risvegli mattutini. Nella fattispecie, quello dei maturandi nella “Notte prima degli esami”. E però evidentemente non l’hanno addolcito. E si son trasformate in un pasticcio. Anzi, un pasticciotto pugliese. Ci troviamo infatti a Barletta, in una tranquilla serata di fine estate. Il cantautore romano è sul palco, immerso in uno dei suoi soliti monologhi tra una canzone e l’altra. Nel pubblico, una ragazza disabile si fa notare, forse si agita, forse cerca solo di attirare un po’ di attenzione. Fatto sta che mugugna qualcosa. E lui che fa? Scapoccia. Ma scapoccia di brutto perché, dirà dopo (molto dopo), non aveva capito e pensava che si trattasse addirittura di una contestazione politica. E così prima lo percula facendogli il verso, poi attacca: “Vieni qui, vediamo se hai coraggio, stronzo”: un insulto che non ha bisogno di interpretazioni. A rimediare ci prova un assistente di palco, che gli sussurra una cosa tipo: è un ragazzo speciale. Vabbè, pure lui manco si accorge che trattasi di una ragazza, ma a questo punto è veramente un dettaglio. Ma lui intigna: “Ho capito è un ragazzo speciale che però deve imparare l’educazione”. E ancora: “Non esistono ragazzi speciali”. Il pubblico muto, manco fischia, perché secondo me davvero stenta a credere alle sue orecchie... Antonè, tutt’appost???
Ma il dado è tratto, e così in un nanosecondo il video fa il giro del web diventando virale, con conseguente ondata d’indignazione generale. Le scuse, come un caffè freddo, arrivano a distanza di ventiquattr’ore. E in molti, a questo punto, si chiedono: quanto c'è di sincero in quelle scuse? Sono arrivate perché davvero si è reso conto di aver commesso un errore, o perché ormai il danno di immagine era troppo grande per essere ignorato? E però, c’è un però. Perché in un’epoca in cui il politically correct è la nuova religione, forse a creare tutto questo caos è stata proprio l’eccessiva delicatezza con cui si cerca di evitare di urtare le sensibilità altrui. L’assistente di palco, per avvertire Venditti della presenza della ragazza, ha parlato di un “ragazzo speciale”. “Speciale”... una parola tanto generica, quanto pericolosa. “Speciale” può voler dire tutto e niente, ed è proprio questo il problema. Nella foga di non voler offendere, si rischia di far sì che chi ascolta si perda in un mare di fraintendimenti. Forse bastava dire “ragazza disabile” o “ragazza diversamente abile”, termini che, per quanto possano sembrare crudi, hanno il vantaggio di essere chiari e inequivocabili.
È davvero un’offesa chiamare le cose col proprio nome? Il politically correct, nel suo tentativo di addolcire la pillola, rischia a volte di renderla più difficile da digerire. Chiamare una persona “disabile” non dovrebbe essere percepito come un insulto, ma come una semplice constatazione di realtà. Non c'è niente di male nel farlo, anzi. Nel tentativo di essere sempre più delicati, rischiamo di complicare ciò che dovrebbe essere semplice. Ed è in questo groviglio di parole che si sono infilati Venditti e il suo entourage. Con la loro “bomba alla crema” linguistica, hanno creato un'esplosione che, a posteriori, poteva essere evitata. Se solo avessero chiamato le cose col loro nome, forse tutto questo non sarebbe accaduto. Perché, per quanto non mi stia affatto simpatico, non posso e non voglio credere che Venditti si metta ad insultare una ragazza disabile. Anche se, ricordiamolo, non è certo la prima volta che il buon Antonello non brilla per simpatia. Anzi, diciamolo pure: non è mai stato un campione di empatia. Basti pensare a quello scivolone, chiamiamolo così per essere buoni, che fece anni fa, sempre ad un suo concerto, quando disse: “Perché Dio ha fatto la Calabria? In Calabria non c’è niente, ma proprio niente”, aggiungendo di augurarsi “che si faccia il ponte, perché così, almeno, la Calabria esisterà”. Parole che hanno fatto discutere allora e che, a distanza di anni, riecheggiano ancora nella memoria di molti. Insomma, la ruvidità di Venditti è nota, e forse è proprio questa ruvidità a far sì che la sua musica non mi sia mai piaciuta granché. Per me, prima dell'artista conta l'uomo, e qui l'uomo lascia parecchio a desiderare.
Nonostante tutto, la valanga di insulti che si è riversata su di lui dopo l'episodio di Barletta ha un retrogusto di ipocrisia. Perché non escludo affatto che quelli che si sono lanciati in epiteti di ogni tipo, fin quasi ad augurare la morte (il cornuto che dice bue all’asino), siano gli stessi che non invitano i “ragazzi speciali” alle feste di compleanno dei loro figli, per paura che rovinino la festa. O magari sono gli stessi che, quando se li ritrovano in un negozio mentre fanno il loro preziosissimo shopping, si infastidiscono e vorrebbero che sparissero. In fondo, è facile indignarsi dietro uno schermo: la vera inclusione è ben altro, e richiede ben altro. Resta il fatto che nell’epoca del (noiosissimo e abusatissimo) politically correct, il rischio è quello di perdere letteralmente la bussola, come è capitato a Venditti. E d perdere il senso delle parole, facendoci travolgere da una finta gentilezza che può portare solo fraintendimenti. E, come dimostra il caso di Barletta, da un fraintendimento può nascere un'offesa, e da un’offesa può scatenarsi una tempesta mediatica. E quando poi arrivano le immancabili scuse a scoppio ritardato, col patetico “non avevo capito”, la domanda sorge spontanea: Venditti, sei nato sotto il segno dei pesci in barile?