La tv va a caccia del sangue, emettendo sentenze senz'appello

- di: Redazione
 
Quante volte il suo nome - Sebastiano Visintin, spesso chiamato solo come ''il marito'', quasi che una definizione del genere possa essere intesa come dispregiativa - è stato menzionato lasciando che su di lui aleggiasse il sospetto di essere il solo che poteva avere ucciso la moglie, Liliana Resinovich, 63 anni, il cui cadavere è stato trovato il 5 gennaio, a quasi un mese dalla scomparsa, infilato in due bustoni di plastica nera?
Eppure le indagini della Polizia scientifica hanno certificato che le uniche tracce rilevate sul cadavere di Liliana, morta per soffocamento, non contenevano il Dna dei soli soggetti inseriti, quasi come atto dovuto, tra i possibili assassini: lui, il marito; l'altro (sempre che tale fosse), un ultraottantenne, amico di vecchia data della morta; un vicino di casa.

La televisione italiana e la spettacolarizzazione dei delitti

Un Dna che non ha, sino al momento, un padrone, un nome incollato, e che quindi, per ovvie conseguenze, non può essere la pistola fumante che inchioda uno dei tre sospettati.
Però, nonostante questo, Sebastiano Visintin - che, almeno ad oggi, alla luce delle prove e dei riscontri acquisiti, non può essere il responsabile materiale della morte della moglie - è stato braccato, assediato, inseguito, magari attingendo al livore di qualche conoscente che, magari ricordando vecchi episodi, ne ha fatto la base per lanciare sospetti, ingigantiti dal microfono che gli si mette davanti. Oggi gli esami sul Dna scagionano Visintin, con gli altri sospettati, ma solo lui pagherà un prezzo perché per mesi è stato inseguito da un'ombra nera, che lo indicava come il solo a potere avere ucciso la moglie per motivi non chiariti. Ma, nonostante l'esito delle indagini scientifiche, per lui poco cambierà, perché la gente, aizzata da un giornalismo a dir poco aggressivo, lo guarderà sempre come l'unico che ha potuto uccidere la moglie e magari farla franca.
Sin qui la cronaca. Poi c'è un'altra faccenda che la dice lunga su come agisce la televisione italiana che, come una bestia affamata, affonda i denti su ogni vicenda che abbia anche solo un millimetro quadrato di ombra che alimenti il sospetto.

Oramai i pomeriggi dei telespettatori italiani sono la celebrazione del peggiore giornalismo e fa sinceramente orrore vedere cronisti sguinzagliati come cani da tartufo a cercare gli aspetti non più oscuri di vicende di cronaca, ma quelli che più vellicano curiosità morbose.
E così, quotidianamente, viene celebrato il rito del sacrificio, che vede sull'altare degli aruspici in video di casa nostra le carcasse morali di persone che, a tavolino, solo per un semplice sospetto, sono scelte come colpevoli ''sicuri''. Certo, per formulare le loro previsioni di colpevolezza, i conduttori e il caravanserraglio di cui si circondano partono da quel che hanno detto loro gli investigatori, ma anche questo fa parte del gioco. Perché, forse, mettere alla gogna televisiva qualcuno solo sospettato e magari anche responsabile, può spingerlo a commettere errori.

Ma ci domandiamo: è questo - partendo anche dalla missione che la Rai, servizio pubblico, dovrebbe avere - il migliore modo di fare giornalismo, anche se pomposamente paludato come d'indagine?
Altri lo hanno fatto prima delle televisioni italiane, ma in un modo diverso, accettando che a discutere dei singoli casi fossero esperti veri e non fatti salire sul carro dei teleconduttori magari per amicizia o per ritorno mediatico.

Se qualcuno, magari in attesa che inizi la trasmissione di un programma a lui gradito, si sofferma sulla Fiera delle Vanità e delle stupidaggini che viene messe in onda ogni pomeriggio, può vedere persone che sciorinano luoghi comuni che con le scienze forensi, così come con la psicologia o la psichiatria, hanno nulla a che spartire, emettendo verdetti di condanna magari nei confronti di qualcuno che, per il sacro diritto di non rispondere a domande sparate a raffica, decide di non rispondere, diventando solo per questo un colpevole ''per silenzio''.

Ci sarebbe da chiedere quali sono i criteri per invitare sempre la stessa composita compagnia per commentare eventi che, invece, si dovrebbero trattare con competenze e sensibilità. Invece questo non accade, con sentenze emesse in diretta e senza contraddittorio da una giuria virtuale composta da persone che forse ne capiscono di altro che non di fatti attinenti al codice penale. Tutto questo mentre, sullo sfondo, su un grande schermo scorrono le immagini di cronisti che si agitano, usando i microfono come fosse un'arma, con tanti saluti alla garanzia della privacy che le nostre televisioni fanno allegramente a pezzi.
Forse, nel camerino di qualche conduttore televisivo, dovrebbe campeggiare una riproduzione di un'acquaforte di Francisco Goya, solo per leggerne il titolo, ''Il sonno della ragione genera mostri''.
Il Magazine
Italia Informa n° 1 - Gennaio/Febbraio 2024
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