Il piano israeliano per un cessate il fuoco temporaneo nella Striscia di Gaza è stato respinto da Hamas, vanificando l’ennesimo tentativo di raggiungere una tregua in un conflitto che da mesi consuma vite, risorse e fiducia internazionale. La proposta, sostenuta da mediazioni internazionali, prevedeva sei settimane di pausa dai combattimenti in cambio di una progressiva riduzione della presenza armata del movimento palestinese nella regione. Ma la risposta di Hamas è stata netta: nessuna concessione, nessun disarmo. Una posizione che chiude, almeno per ora, lo spiraglio diplomatico aperto nelle ultime settimane tra Il Cairo, Doha e Washington.
La tregua che non arriva: Hamas respinge il piano israeliano, Netanyahu promette nuovi attacchi
La reazione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non si è fatta attendere. In un messaggio duro, rivolto sia alla popolazione israeliana che alla comunità internazionale, ha dichiarato che Hamas “subirà sempre più colpi” e che lo Stato ebraico “non si fermerà finché la minaccia non sarà eliminata”. La linea di Israele resta ancorata a due priorità dichiarate: la restituzione degli ostaggi e il completo smantellamento delle capacità militari del movimento islamista. Ma l’obiettivo dichiarato si scontra con la realtà di un conflitto urbano, combattuto in una delle aree più densamente popolate del pianeta, dove ogni offensiva rischia di tradursi in un nuovo bagno di sangue tra la popolazione civile.
Una crisi umanitaria che peggiora di ora in ora
A Gaza la situazione è ormai al collasso. Le agenzie umanitarie denunciano l’impossibilità di raggiungere le zone più colpite, mentre gli ospedali, privi di elettricità e medicinali, si trasformano in rifugi di disperazione più che in centri di cura. La resistenza di Hamas al disarmo si alimenta anche con la rabbia e la frustrazione di una popolazione prigioniera del conflitto, ma allo stesso tempo sempre più stremata. Secondo fonti locali, le vittime civili hanno superato le 30 mila unità da inizio guerra, con una maggioranza schiacciante di donne e bambini. La tregua proposta avrebbe permesso l’apertura di corridoi umanitari e l’ingresso di aiuti, ma la rigidità dei due fronti ha reso impossibile anche il più modesto dei compromessi.
Il ruolo dell’Egitto e del Qatar: diplomazie sotto assedio
Dietro le quinte, l’Egitto e il Qatar continuano a operare per riattivare i negoziati, ma le loro mediazioni sembrano progressivamente logorate da una crescente sfiducia tra le parti. Il Cairo aveva presentato una bozza che prevedeva una sospensione delle ostilità, lo scambio di ostaggi e prigionieri, e l’avvio di un dialogo su una possibile soluzione politica. Ma Hamas, pur manifestando interesse in un primo momento, ha poi giudicato “inaccettabili” le condizioni poste da Israele, accusato di voler utilizzare la tregua solo per riorganizzare le proprie forze. In questo clima, anche le diplomazie regionali più attive sembrano impotenti davanti all’ennesimo stallo.
Il contesto regionale si surriscalda
La guerra a Gaza ha ormai superato i confini della Striscia. In Cisgiordania si susseguono gli scontri tra manifestanti palestinesi e forze israeliane, con un numero crescente di vittime. Nel Libano meridionale Hezbollah minaccia nuovi attacchi in risposta ai raid israeliani. E in Iran, alleato strategico di Hamas, si moltiplicano le dichiarazioni bellicose nei confronti di Israele. Tutto questo mentre il mondo arabo assiste, in parte impotente e in parte complice, all’incrudirsi di un conflitto che rischia di trasformarsi in una guerra regionale. Anche per questo, ogni mancato accordo rappresenta non solo una tragedia umanitaria, ma un pericolo geopolitico.
La pressione internazionale è tutta sulla tenuta di Israele
Sebbene gli Stati Uniti abbiano finora difeso il diritto di Israele a rispondere all’attacco del 7 ottobre, la pazienza di Washington sembra affievolirsi. I timori di un’ulteriore destabilizzazione dell’intera area spingono l’amministrazione Trump a chiedere con forza a Netanyahu maggiore attenzione agli obiettivi strategici e al contenimento del danno umanitario. L’Europa, più divisa che mai, oscilla tra il sostegno a Israele e il pressing per il rispetto del diritto internazionale. Ma a pesare è soprattutto il malcontento crescente delle opinioni pubbliche occidentali, sempre più scettiche sulla gestione del conflitto da parte di Tel Aviv.
Una pace che non arriva e una guerra senza fine
Il rifiuto della tregua non è solo l’ennesimo inciampo nella ricerca di una soluzione: è il simbolo di un conflitto che non riesce a trovare uno sbocco, incagliato tra ragioni storiche, ferite aperte e calcoli politici. Hamas continua a rifiutare ogni forma di compromesso che preveda la sua fine come attore politico e militare. Israele, dal canto suo, si mostra determinato a non accettare la sopravvivenza di un’organizzazione che considera terroristica. In mezzo, milioni di vite sospese, tra l’illusione di una pausa e la certezza di nuove esplosioni. La tregua che non arriva è il racconto, ancora una volta, di una guerra che non sa smettere.