Ricorre oggi il trentatreesimo anniversario della strage di Capaci. Era il 23 maggio 1992. Ore 17:58. Cinquecento chili di tritolo squarciano l’autostrada A29, all’altezza dello svincolo di Capaci. Vengono assassinati il giudice Giovanni Falcone, la moglie e magistrata Francesca Morvillo e gli uomini della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. L’Italia si ferma. Le edizioni straordinarie dei telegiornali interrompono la programmazione: “Falcone è stato assassinato”. Le immagini scorrono: una carreggiata devastata, lamiere contorte, sirene, polvere, sangue. In quelle ore si capisce che la mafia non colpisce più di nascosto. Sfidava apertamente lo Stato.
Ricorre oggi l’anniversario della strage di Capaci
Falcone non era solo un magistrato. Era un uomo che aveva deciso di entrare nel cuore del potere mafioso. A Palermo aveva creato, con Paolo Borsellino, il pool antimafia. Con metodo, rigore, visione. È stato lui a raccogliere le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, primo grande pentito di mafia. È stato lui a ideare la struttura dell’indagine che avrebbe portato al maxiprocesso di Palermo. Diceva: “La mafia è un fenomeno umano, e come tale avrà un principio, una sua evoluzione e una fine”. Ma anche: “Seguite i soldi, troverete la mafia”.
L’Asinara: isolamento, paura e lavoro febbrile
Sette anni prima, nell’estate del 1985, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vengono allontanati da Palermo per motivi di sicurezza. Dopo l’uccisione del commissario Montana e del vicequestore Cassarà, le minacce sono concrete. Lo Stato li trasferisce con le rispettive famiglie nella foresteria del carcere dell’Asinara, nel nord della Sardegna. Vi rimarranno dal 5 al 30 agosto. Nessuna vacanza. Nessun privilegio. Solo isolamento e lavoro incessante. In quelle stanze essenziali, tra fascicoli e risme di carta battute a macchina, Falcone e Borsellino scrivono l’ordinanza di rinvio a giudizio per 475 imputati: è l’ossatura del maxiprocesso. Un documento di 8.000 pagine che segnerà la storia della giustizia italiana.
Il maxiprocesso: un colpo alla cupola
Il processo si apre il 10 febbraio 1986 nell’aula bunker dell’Ucciardone. Si concluderà nel dicembre 1987 con 19 ergastoli e oltre 2.600 anni di carcere inflitti. È il primo processo che riconosce l’esistenza di Cosa Nostra come organizzazione unitaria e verticistica. Il metodo Falcone funziona. Ma per lui e Borsellino è l’inizio dell’isolamento istituzionale. Dentro la magistratura non tutti lo sostengono. Quando Falcone lascia Palermo per il ministero della Giustizia, viene accusato di essersi “venduto al potere politico”. Eppure da Roma continua la sua battaglia: lavora alla Procura nazionale antimafia, ai collegamenti con l’FBI, alla creazione di un sistema centrale per le indagini.
Il peso della memoria e la promessa mancata
Oggi, trentatré anni dopo, Capaci è un luogo fisico e un simbolo morale. A Palermo e in tutta Italia si tengono iniziative, cortei, letture. Si ricordano Falcone, Morvillo, Montinaro, Schifani, Dicillo. Si ricordano le parole e le scelte. Ma non basta ricordare. La mafia non è scomparsa: ha cambiato pelle, si è fatta sistema economico, zona grigia, potere trasversale. E quella lezione – fatta di rigore, metodo, studio – spesso viene celebrata più che applicata.
Dall’Asinara a Capaci: il filo che non si è mai spezzato
Quell’estate del 1985 e quel pomeriggio del 1992 sono due estremi della stessa linea. Da un lato l’isolamento, il lavoro febbrile, la dedizione totale. Dall’altro il boato, la morte, la ferita. Ma in mezzo ci sono anni di ostacoli, di diffidenze, di paure. E anche di solitudine. Falcone aveva capito che per battere Cosa Nostra bisognava rompere il muro dell’invisibilità e colpirla nei soldi, nelle strutture, nelle coperture istituzionali. Lo ha fatto. E ha pagato. Oggi, ricordarlo significa anche scegliere se quella lezione vogliamo davvero portarla avanti. O se preferiamo continuare a lasciarla alle cerimonie.