Usa: gli sport professionistici si fermano, no alle violenze della polizia
- di: Brian Green
“Quando scendiamo in campo rappresentando Milwaukee e lo Stato del Wisconsin, ci viene chiesto di giocare ad alto livello, dare il massimo ed essere responsabili... In questo momento, chiediamo la stessa cosa ai politici e alle forze dell’ordine dello Stato”.
Gli Stati Uniti, il 'grande Paese'' per eccellenza, sta impartendo, oggi, una grande lezione a se stesso. Una lezione che passa per la rivolta della categoria (gli sportivi professionisti, solo una minoranza dei quali proviene da famiglie dell'alta borghesia) che meglio rappresenta il sogno americano, che consente a tutti di coltivare delle ambizioni e delle speranze.
La scorsa notte, come una palla da biliardo che, colpendo la piramide, manda tutte le altre a cozzare rimbalzando impazzite, i giocatori dei Milwaukee Bucks - squadra che sta disputando, peraltro da favorita ad est, i play-off della Nba - hanno deciso di non disputare l'incontro con gli Orlando Magic dopo l'ennesimo atto di violenza gratuita, in una cittadina del Wisconsin, di un agente di polizia contro un uomo di colore.
La decisione dei Bucks ha determinato un effetto valanga che ha decretato la sospensione non solo delle partite di play-off, nella ''bolla'' di Orlando (dove tutte si stanno disputando per effetto della pandemia) , ma anche di altre della Wnba (la lega professionistica di basket), ma - e questa è una notizia - anche del baseball. Sì, anche il gioco americano per eccellenza (quello che vede sugli spalti intere famiglie seguire per ore partite che certo non hanno il pregio - per chi non conosce bene il baseball - del ritmo) si è fermato, cosa accaduta pochissime volte nei periodi non di guerra. E lo stesso è accaduto anche per la lega professionistica di calcio, mentre Naomi Osaka, tennista di primo livello e anche lei di pelle nera (è figlia di un haitiano e di una giapponese), non ha voluto disputare la semifinale del torneo in corso a Flushing Meadows.
Questo per spiegare che lo sport professionistico americano intende giocare anch'esso un ruolo nelle dinamiche della società degli Stati Uniti, che mai come in questi anni sta vivendo molte contraddizioni, con in primo piano quella dell'esercizio eccessivo della forza da parte della polizia. Il moto di rivolta dei ''Black lives matter'' infatti sta vedendo la partecipazione anche di ''non neri'' a conferma che il problema è sentito, ma è soprattutto vero perché, nonostante le devastanti reazioni all'uccisione di George Floyd, alcuni agenti ritengono di potere continuare a fare come se nulla fosse accaduto.
E, a Kenosha, nel Wisconsin, un altro nero, Jacob Blake, ne sta pagando le conseguenze, con il serio pericolo di restare inchiodato su una carrozzina per il resto della vita, dopo che un poliziotto gli ha sparato alla schiena mentre, senza essere una minaccia per nessuno, stava risalendo sull'automobile sulla quale lo aspettavano tre figlioletti.
La reazione dello sport professionistico americano è un segnale, ma sta assumendo ben altra valenza perché sottolinea come gli atleti, pur coscienti di appartenere ad una fascia sociale molto privilegiata dal punto di vista economico, non si sentono lontani dalla gente, quella che li applaude, li idolatra, ma poi torna a casa col rischio che un poliziotto in vena di bravate gli ficchi una pallottola in corpo.
Ma a questa dichiarata volontà degli sportivi professionisti di sentirsi parte integrante della società americana, quale che ne sia l'indirizzo politico, non sembra corrispondere una giusta attenzione da parte della classe politica, almeno di quella che ha come punto di riferimento Donald Trump. Come ha confermato il discorso del vice, Mike Pence, che, in occasione della convention repubblicana, ribadendo che il Paese non lascerà nessuno indietro, proteggendo tutti, al di là del colore della pelle e del suo credo, ha detto che l'Amministrazione intende camminare nel solco del concetto di ''law & order'', usato, in questo contesto, per rassicurare la parte più reazionaria dell'elettorato di riferimento.
E, a fare il controcanto, ci ha pensato lo sesso Trump annunciando che a Kenosha manderà truppe federali per spegnere le proteste. Benzina sul fuoco, piuttosto che tentare di spegnere la protesta.
La questione della ''predisposizione'' della polizia ad avere mano pesante con i neri è però sin troppo evidente per essere ignorata nello sport americano perché, ad esempio, la quasi totalità dei giocatori professionisti di basket è nera e, in gran parte, uscita dai college e dalle università grazie a borse di studio per meriti sportivi che l'hanno aiutata ad emergere da condizioni economiche certo non agiate.
Lo sport americano, nelle sue varie articolazioni, è una macchina che fa soldi e che macina soldi. Nessuno si può permettere di fermarla, a meno che a determinarsi a questo non sia una presa di consapevolezza che un limite è stato superato - ne stanno prendendo coscienza anche alcuni proprietari delle squadre della Nba - e che ci si avvicina troppo al punto di non ritorno. Con tutto quello che questo può scatenare.
La decisione di fermare con una motivazione politica l'ultima fase del tormentato - per effetto della pandemia - campionato della Nba sino a poche decine di anni fa sarebbe stata una ipotesi assolutamente improponibile.
Nel 19911, mentre gli Stati Uniti erano travolti dalle violentissime proteste per il pestaggio di Rodney King, Craig Hodges, giocatore dei Chicago Bulls, chiese al suo compagno di squadra più famoso e rappresentativo, l'immenso Michael Jordan, ed ad un altro asso, Magic Johnson, dei Lakers, di boicottare la prima partita dei play-off, ricevendone una risposta totalmente negativa.
Hodges, che era molto politicizzato e che interveniva spesso su questioni sociali, fu liquidato da Jordan che lo avrebbe definito ''pazzo'', mentre Magic definì il boicottaggio una risposta sproporzionata.
Sono passati trent'anni e sembrano una eternità davanti a quanto stanno facendo atleti di uno stesso sport davanti a fatti eguali, ma con una diversa coscienza sociale.