Kiev parla di garanzie di sicurezza americane per almeno quindici anni, prorogabili. E già qui si misura la distanza tra la diplomazia delle formule e la realtà della guerra. Perché quindici anni, come ha ammesso lo stesso Volodymyr Zelensky, non bastano. L’Ucraina chiede orizzonti di “30, 40, 50 anni”: non una clausola tecnica, ma una protezione esistenziale. La richiesta dice molto più della risposta. Dice che Kiev non si fida del tempo breve, né delle garanzie reversibili, né degli equilibri che cambiano a ogni ciclo politico occidentale.
Kiev, le garanzie e l’illusione della svolta: quindici anni non sono la pace
Il contesto è quello di una diplomazia accelerata e opaca. Donald Trump ha parlato per oltre un’ora con Vladimir Putin e ha poi incontrato Zelensky a Mar-a-Lago. “Entrambi vogliono un accordo, siamo molto vicini”, ha detto Trump. È una frase che nella storia dei conflitti vale poco: tutti vogliono un accordo, ma non lo stesso accordo. E soprattutto non alle stesse condizioni.
Secondo indiscrezioni americane, i colloqui potrebbero aprire la strada alla prima telefonata diretta tra Zelensky e Putin dopo oltre cinque anni. Sarebbe un fatto politico, certo. Ma non necessariamente una svolta. Perché il dialogo, quando arriva tardi e sotto pressione, rischia di essere più un rito che una soluzione. Zelensky ha spiegato che nella conversazione Trump-Putin sarebbero stati discussi “tutti e 20 i punti del piano di pace”. Ma i piani, senza rapporti di forza condivisi, restano carta.
Il nodo è sempre lo stesso: la sicurezza.
Per Kiev non è una formula, è una condizione di sopravvivenza. Per Washington è una leva negoziale, modulabile nel tempo. Per Mosca è una minaccia secolare. Parlare di garanzie americane a termine significa, implicitamente, riconoscere che l’Ucraina resterà una linea di frizione, non un Paese definitivamente messo al riparo. Ed è qui che la richiesta ucraina di un arco temporale lunghissimo suona come una confessione: senza un ombrello stabile, la guerra può tornare in qualsiasi momento.
C’è poi il dato politico più delicato: il ruolo degli Stati Uniti come garante. Le garanzie promesse oggi dipendono da un presidente che domani potrebbe non esserci, e da un Congresso che cambia umore e maggioranze. L’Europa, ancora una volta, resta sullo sfondo, evocata ma non decisiva. E la Russia osserva, aspettando che il tempo faccia il suo lavoro.
L’eventuale telefonata Zelensky-Putin, se avverrà, sarà letta come un segnale di disgelo. Ma i segnali, in questa guerra, hanno spesso preceduto nuove escalation. Senza un accordo strutturale sulla sicurezza, sui confini, sul ruolo dell’Ucraina nello spazio euro-atlantico, ogni dialogo rischia di essere solo una parentesi.
Quindici anni di garanzie non sono la pace. Sono una tregua lunga, condizionata, fragile. E la storia dell’Europa orientale insegna che le tregue, quando non sono fondate su equilibri condivisi, finiscono sempre allo stesso modo: preparando il prossimo conflitto.