Revenge porn: e se, per una volta, la nostra giustizia prendesse esempio da quella 'creativa' americana?

- di: Bianca Balvani
 
L'Italia, diretta discendente - seppure con qualche zig-zag genetico - dei romani (intesi come popolo che dominò il mondo conosciuto, imponendo la propria forza militare, ma anche il proprio corpo di leggi) si è sempre considerata la culla del diritto, anche se, poi, a leggere quanto accade nelle aule di giustizia e, più in generale, negli uffici giudiziari, non è che ci sia da stare molto allegri.
Tra magistrati che esprimono giudizi che poco hanno a che fare con la giustizia (soffermandosi su aspetti secondari di una indagine e non su quelli sostanziali) e altri che cambiano metro di giudizio su reati di eguale natura, a seconda dell'allineamento degli astri, la gente ha progressivamente perso fiducia nel sistema.

Revenge porn: e se, per una volta, la nostra giustizia prendesse esempio da quella 'creativa' americana?

Quel sistema che - è solo un esempio - consente ad un ragazzo di tornare libero, appena pochi anni dopo essere stato condannato per avere scannato la fidanzatina, che voleva uscire da un rapporto diventato asfissiante.
Per questo, chi guarda con interesse professionale o solo per curiosità al mondo del diritto, deve riflettere sulla notizia che arriva dal Texas e relativa ad un processo per revenge porn, definizione che riguarda coloro che, lasciati dal partner o dalla partner, si vendicano rendendo pubbliche quelle che, per sintesi, vengono chiamate immagini private o intime.
Il tribunale texano, al quale la donna si era rivolta lo scorso anno, ha giudicato l'ex fidanzato colpevole, assegnando alla querelante 1,2 miliardi di dollari. Sì, proprio un miliardo e duecento milioni di dollari. Somma ragguardevole, anche se la si converte in euro.

La difesa della donna ha espresso enorme soddisfazione, dicendo che la decisione del tribunale, che ha condannato l'imputato per la strategia di ''svergognare pubblicamente'' la ex pubblicandone online foto intime, è una vittoria per le vittime di "abusi sessuali basati sull'immagine".
A fronte della consapevolezza che mai l'imputato potrà fare fronte all'ammontare della sanzione, il collegio di difesa della donna le ha quindi restituito ''il buon nome". C'è anche da considerare che la decisione del tribunale, in termini concreti, è andata moltissimo oltre la richiesta della difesa, che era di un risarcimento di 100 milioni di dollari.

I fatti del processo hanno raccontato che la relazione tra vittima e imputato era cominciata nel 2016, con la donna che aveva condiviso con il suo - al tempo - compagno delle foto intime di sé stessa. Ma, dopo la fine della relazione, nel 2021, lui aveva pubblicato le foto su piattaforme di social media e siti web per adulti, ovviamente senza il consenso della donna.
All'imputato era contestato anche di avere avuto accesso, in modo fraudolento, al telefono della donna, così come al suo account di social media ed e-mail, nonché al sistema di telecamere a casa di sua madre, usate per spiarla. Questa vicenda potrebbe passare, ad una lettura superficiale, come l'ennesimo caso in cui un tribunale statunitense, facendo leva sulla possibilità di modulare una condanna a seconda della valutazione anche emozionale di un caso, emette sentenze in cui sanzioni o condanne sono dilatate, numericamente e quantitativamente, a dismisura.

Per noi, invece, è la conferma di come una società debba difendersi da fenomeni criminali che erano sconosciuti sino a pochi anni fa. Parliamo del revenge porn, in cui si mettono nella piazza virtuali immagini che dovevano restare private e che comunque appartengono a rapporti sentimentali ormai appassiti o cancellati, ma anche delle persecuzioni fisiche cui vengono fatte oggetto soprattutto donne le cui decisioni di troncare un rapporto non vengono rispettate da chi pensava di avere su di loro un diritto basato sul soffocamento della libertà personale.
L'ultimo caso, quello della ragazza uccisa in Trentino dall'ex fidanzato che lei aveva denunciato temendo per la propria incolumità, è l'ulteriore conferma che il nostro sistema giudiziario non ha saputo darsi gli anticorpi necessari per combattere la piaga delle violenza sulle donne. E' poi facile, quando arrivano notizie devastanti come quella della morte violenta di Celine Frei Matzhol, piangere e stracciarsi le vesti, chiedendosi perché l'assassino non è stato fermato prima di uccidere a coltellate la ragazza che lo aveva scacciato dalla sua vita. La verità è davanti agli occhi, ed è una verità che è una sconfitta per tutti noi.
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