Dopo averlo approvato, ora tutti sono contro il tetto alla retribuzione dei boiardi di Stato

- di: Redazione
 
Per chi non conosce la liturgia del Parlamento, può suonare strano che un provvedimento passi, in una delle due Camere, senza che il governo ne sappia nulla. Eppure può accadere, perché, basta un emendamento che si annidi furbescamente tra le pieghe di linguaggi tecnici, quasi per iniziati, ed ecco qui che viene data dignità di atto del parlamento a qualcosa che i partiti che ne fanno parte (e i cui rappresentanti hanno dato voto favorevole) si premurano immediatamente a disconoscere avvedendosi che esso ha offeso il sentimento della gente.

Dopo averlo approvato, ora tutti sono contro il tetto alla retribuzione dei boiardi di Stato

Quasi che un emendamento si generi da solo, come un'entità a sé stante, che non ha madri o padri. Quindi la vicenda della cancellazione del tetto dei 240 mila euro (lordi) all'anno per i dipendenti dello Stato che oggi tanto indigna, dalle Alpi a Pantelleria, sembra essere frutto di una distorsione della genetica parlamentare, dove invece tutto deve avere in calce la firma di chi propone e di chi approva.
L'emendamento in questione recita che ''al capo della Polizia, al comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, al comandante generale della Guardia di Finanza, al capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, così come agli altri capi di Stato maggiore, nonché ai capi dipartimento ed al segretario generale della presidenza del Consiglio, ai capi dipartimento ed ai segretari generali dei ministeri è consentito, anche in deroga al tetto di 240 mila euro previsti per i manager pubblici, un trattamento economico accessorio''.

Per dirla in maniera brutale, in un mondo in cui ci sono figli e figliastri, c'è chi è più vicino al Sole rispetto ad altri, confinati nelle tenebre. E questa condizione di privilegio consentirebbe, alla luce dell'emendamento, si sforare il tetto di 240 mila euro all'anno che incombe su tutta la pubblica amministrazione e, più in generale, sui vertici laici delle istituzioni.
Avuta notizia dell'approvazione dell'emendamento (proposto da Forza Italia, ma approvato anche da esponenti del Partito democratico, a quel che se ne sa), pare che Mario Draghi si sia arrabbiato. Anche se nutriamo qualche dubbio se il verbo ''arrabbiarsi'' possa tradurre l'ira di un primo ministro che, dalle dimissioni del suo governo, pone la massima attenzione quando si tratta di atti che si traducano in un aggravio del bilancio statale che non siano totalmente e universalmente ritenuti necessari.

Eppure è accaduto, anche se oggi tutti si affannano a dire che non ne sapevano nulla, come il mostro di Alien che si manifesta in modo inatteso e devastante. Delle reazioni citiamo, per ovvi motivi, solo quella di Matteo Renzi che, da presidente del consiglio, istituì il tetto e che ora dice che, davanti alla riformulazione del governo, ''non avevamo alternativa che votarlo per evitare che saltasse tutto e saltassero 17 miliardi di aiuti alle famiglie''.
Ovvero, un voto favorevole perché non si poteva fare altrimenti. Né altro poteva fare il Mef cui, in casi del genere, spetta solo una valutazione tecnica e non certo di merito, nel senso che può eccepire qualcosa solo nel caso che non ci siano le necessarie coperture finanziare. E questo non sembra essere il caso.

Non sappiamo quale sarà la fine di questo emendamento, che probabilmente sarà cancellato. Resta però lo sconcerto per una decisione che è e resta politica e che sembra avere come obiettivo quello di gratificare servitori dello Stato per quelli che sono gli scenari complessivi, ma ignorando il momento che il Paese sta vivendo.
Cercando di cancellare ogni ipocrisia, una retribuzione massima di 240 mila euro restringe sensibilmente la platea di chi accetta il settore pubblico rispetto a quello privato che mette sul piatto di chi ''corteggia'' compensi ben più elevati.
Le leggi del mercato dicono che chi più vale più deve essere retribuito o, dicendola in modo diverso, chi vale può proporsi a più interlocutori scegliendo quello che lo paga di più o gli garantisce maggiori e migliori prospettive.

Questo vale comunque in un settore privato, dove i manager spuntano retribuzioni (in denaro o in benefit, tipo pacchetti di azioni) che sono quattro, cinque volte superiori rispetto al massimo dei manager pubblici o chi ha incarichi apicali nell'amministrazione statale.
Questo è però un discorso che, nel caso del contestato emendamento, vale poco perché, mentre non si trova un accordo se e come quantificare un aumento della retribuzione oraria, si assiste ad un miracolo dell'alchimia della burocrazia, germinando un provvedimento di cui oggi, anche con la massima buona volontà, non si ravvisa certo l'urgenza. Perché l'impressione che, chi non è avvezzo alle tattiche e alla strategia della politica, potrebbe avere è che si tratta di una regalia - per l'oggi o anche a futura memoria - fatta da un parlamento che, dopo il 25 settembre, sarà molto diverso.
A pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina, disse Giulio Andreotti, che di queste cose ne capiva.
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