La Toscana resta al centrosinistra e lo fa con margine netto. Eugenio Giani viene riconfermato governatore oltre la soglia del 50%, mentre Alessandro Tomasi si ferma intorno al 41%. La fotografia finale archivia la sfida con uno scarto di circa 14 punti e una partecipazione in picchiata: meno di un elettore su due è andato alle urne. I numeri dicono due cose: il “campo largo” regge e la destra si spacca sul terreno toscano.
La mappa del consenso
Nel voto di lista il Partito democratico è primo partito attorno al 34–35%, Fratelli d’Italia segue nell’ordine con circa il 26%, mentre la Casa Riformista — lista moderata e riformista — sfiora il 9% e diventa terza forza regionale. È l’asse centrista a risultare determinante nel bilancio finale.
Il fattore centrista
La spinta moderata si vede: la Casa Riformista intercetta elettori orfani di un baricentro liberale e riformista e aiuta il Pd a presidiare lo spazio centrale della politica regionale. È una lezione che vale oltre la Toscana: quando il centrosinistra si apre a culture di governo, vince.
La destra e il nodo Lega
Dentro la coalizione avversaria, Fdi fa l’asso pigliatutto, ma non basta se gli alleati arretrano. La Lega precipita sotto il 5% (nel 2020 era oltre il 20%) e viene sorpassata da Forza Italia, che supera il 6%. L’aspettato “effetto Vannacci” non si materializza: la campagna muscolare non allarga il consenso e lascia il Carroccio ai minimi storici.
Affluenza, il vero campanello d’allarme
Il dato finale scivola attorno al 47,7%, quasi quindici punti in meno rispetto al 2020. Sfiducia, percezione di partita chiusa e divisioni interne spiegano il crollo. È un tema di qualità democratica: l’astensione è l’avversario comune.
Voci della notte elettorale
“Ha vinto una Toscana illuminata e riformista”, ha detto Giani, promettendo di essere “presidente di tutti”. “I conti si fanno alla fine: una vittoria che dà gioia e speranza”, il commento di Schlein. Messaggi che spostano il baricentro su governo e unità, più che sulle bandiere.
Cosa resta
Tre messaggi netti. Primo: il perno riformista-moderato torna centrale nelle regioni chiave. Secondo: la Lega tocca il minimo e deve ripensare dirigenza e linguaggi. Terzo: l’astensione rischia di erodere la rappresentanza, e nessuno può permettersi di ignorarla.