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Pensioni di invalidità, la Consulta ribalta la riforma Dini

- di: Bruno Coletta
 
Pensioni di invalidità, la Consulta ribalta la riforma Dini
Ora anche chi è nel contributivo puro avrà l’integrazione al minimo. Una svolta di giustizia sociale che riapre il dibattito sulla fragilità del sistema.

Un cambio di rotta atteso trent’anni

Con una decisione storica, la Corte Costituzionale ha demolito uno dei pilastri più contestati della riforma Dini del 1995: il divieto di integrazione al minimo per gli assegni ordinari di invalidità liquidati secondo il sistema contributivo.

La sentenza n. 94, pubblicata il 3 luglio 2025 e operativa dal 9 luglio, stabilisce che il divieto è “illegittimo” e contrario al principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione.

D’ora in poi, anche chi ha iniziato a lavorare dopo il 1° gennaio 1996 – e dunque è interamente nel sistema contributivo – potrà ottenere l’integrazione al minimo dell’assegno di invalidità, se l’importo maturato è inferiore ai 603 euro mensili.

Cosa cambia, per chi e da quando

La svolta riguarda inizialmente i lavoratori cosiddetti parasubordinati – come i collaboratori occasionali e i professionisti senza albo – iscritti alla gestione separata dell’INPS.

La portata della sentenza è però enorme sul piano simbolico e giuridico: apre uno spiraglio verso il riconoscimento di una rete minima di protezione per chi ha carriere discontinue e contributi bassi, spesso a causa di disabilità sopravvenute in giovane età.

Per contenere l’impatto sui conti pubblici, la Corte ha stabilito che gli effetti si applicano solo da dopo la pubblicazione in Gazzetta, escludendo il pagamento degli arretrati.

“L’eliminazione dell’integrazione al minimo non realizza la sostenibilità finanziaria del sistema, poiché era già garantita dalla fiscalità generale” – si legge nelle motivazioni.

Un diritto negato per quasi tre decenni

Il principio scardinato era semplice quanto spietato: se sei nel contributivo puro e diventi invalido, nessuno ti garantisce il minimo vitale. Una stortura giuridica e sociale, perché chi è colpito da grave invalidità è anche il più esposto al rischio di pensioni da fame.

La Corte ha sottolineato che l’assegno ordinario di invalidità non va equiparato alle pensioni: è uno strumento intermedio, pensato per chi, pur non totalmente inabile, non può più lavorare in modo adeguato alla propria esperienza o formazione.

Le ricadute potenziali e il nodo delle carriere povere

Secondo l’analisi Inps del 2023, oltre il 60% dei lavoratori nella gestione separata guadagna meno di 15.000 euro lordi l’anno. Contributi bassi, pensioni inadeguate.

La sentenza riapre il dibattito sul valore delle pensioni contributive in un mercato del lavoro sempre più precario. “Una sentenza giusta e necessaria, che impone al legislatore di prendere atto di come il puro calcolo attuariale, senza correttivi solidaristici, genera esclusione e povertà”, ha commentato l’economista Michele Raitano.

Diritto all’inclusione, non all’elemosina

Al centro della questione c’è il conflitto tra il principio assicurativo del sistema contributivo e l’articolo 38 della Costituzione, che garantisce l’assistenza ai cittadini inabili al lavoro.

“Non si può chiedere a un lavoratore giovane, colpito da grave malattia, di vivere con 200 euro al mese solo perché ha avuto una carriera precaria”, ha dichiarato il giurista Vitaliano Esposito. “È una negazione della dignità personale”.

La Corte ha ribadito che l’assegno ordinario di invalidità non è una scelta, ma una conseguenza non voluta di una condizione di fragilità. Va quindi sottratto al giudizio di disvalore che accompagna l’uscita anticipata dal lavoro.

Un precedente che può fare scuola

Il valore economico immediato della sentenza è contenuto, ma il significato politico e sociale è enorme. Smentisce l’idea che sostenibilità e giustizia sociale siano incompatibili.

Secondo il 9° Rapporto Itinerari Previdenziali (marzo 2025), oltre il 70% dei futuri pensionati contributivi non raggiungerà il 60% dell’ultimo reddito.

La Consulta, cancellando un divieto figlio del rigore contabile, invia un messaggio preciso: anche il contributivo ha bisogno di un’anima redistributiva.

Ora tocca al legislatore

Il Parlamento è ora chiamato a intervenire. Se l’integrazione al minimo è legittima per l’invalidità, potrebbe esserlo anche per altre situazioni di fragilità nel contributivo puro.

“Non possiamo più ignorare il problema dell’adeguatezza delle pensioni future”, ha affermato Pietro Salini, presidente della Commissione Lavoro del Senato. “Questa sentenza ci impone di agire”.

La palla passa ora al legislatore, che dovrà definire criteri, risorse e limiti. Una cosa è certa: l’assegno minimo non è più una concessione, è un diritto.

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