Il Pd tenta di strangolarsi con le sue mani

- di: Redazione
 
C'era una volta il Partito comunista che, al di là di quel che si pensava e si pensa ancora della sua ideologia, rispetto al Pd di oggi marca una evidente differenza: era un partito vero e organizzato, al contrario di quel che é/era/sarà quello che, semplificando molto, si potrebbe definire il suo erede.
Dirlo oggi è sin troppo facile, visto quello che, nel giro di pochi anni, i dirigenti del Pd hanno sperperato in termini di consenso popolare, ma soprattutto di voti. La cosa che appare assurda, e non solo agli osservatori e ai politologi, ma agli stessi simpatizzanti del Pd, è che all'orizzonte non si intravede nemmeno una reazione alla situazione attuale, un moto che faccia intuire che il patrimonio di idee, aspirazioni e sogni di un tempo non sia andato inesorabilmente perduto.

Continuano le manovre autolesioniste del Pd

Esagerazioni? Nemmeno tante, perché quello che danno i ''dirigenti'' (ma sì, chiamiamoli ancora così) del Partito democratico è uno spettacolo a dir poco sconcertante e, per i nostalgici dei tempi che furono, indecoroso. Conseguenza della scelta di imbarcare nel partito tutti, anche quelli che con l'ideologia dominante non c'entravano affatto, né avevano intenzione di sposare le vecchie scelte.

Non stiamo qui a dire se il processo di ''scoloritura'' del rosso fuoco del Pci nei toni tenui del Pd sia stato deleterio o no. La cosa che non si può tacere é che, sul cammino della normalizzazione (chiudere la pagina che riportava al comunismo di rigida osservanza sovietica), il pensiero forte del Partito democratico - che mirava a creare una forte aggregazione riformista, sul modello dei partiti socialisti europei - è andato evaporando, facendo prevalere idee e atteggiamenti, poi trasformatisi in scelte, che hanno determinato una spaccatura tra il nuovo e il vecchio, senza che delle vecchie eredità si sia fatto tesoro.

Ora sta per chiudersi anche la segreteria Letta, sulla quale, per gli anni a venire, peserà la sconfitta pesante (quanto peraltro annunciata) alle elezioni di settembre, non tanto in termini di risultati, abbastanza scontati, quanto di scelte che hanno indebolito una sinistra già fragile. Enrico Letta, che era e resterà un galantuomo, è rimasto in mezzo al guado, dilaniato dal dilemma su chi dovesse essere l'alleato. Così, nel dubbio, ha scelto lo strano connubio tra Verdi e Sinistra Italiana, aiutandone concretamente gli esponenti a entrare in Parlamento, ma non garantendosene la ''riconoscenza''. Il dopo Letta si preannuncia nebuloso, con un candidato favorito (Stefano Bonaccini) e qualche outsider che raccoglierà parecchi consensi (Elly Schlein), ma non si sa ancora sino a che punto utili al sorpasso.

Ma non sono le candidature a dare un'immagine sconclusionata di questo Pd, quanto il fatto che i suoi maggiorenti sembrano non rendersi conto che il baratro é a un passo e nonostante questo continuano a comportarsi come se fossero una casta, raggomitolata nel suo cantuccio da cui non si vuole spostare, godendo delle relative rendite. Piuttosto che mobilitarsi per recuperare il perduto consenso (che gli viene eroso dall'opportunismo spregiudicato di Giuseppe Conte, che cavalca la rabbia popolare, forse non rendendosi conto di quanto questo possa nuocere alle Istituzioni), il gotha del Pd preferisce guardarsi l'ombelico, considerandolo il centro del mondo. Il prossimo congresso farà da battistrada a probabili ulteriori rovesci elettorali. Forse a consigliarlo è l'idea che restare dove si è oggi può essere meglio che fare anche un piccolissimo passo.
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