Pandemia: la tardiva percezione del dramma da parte dei media
- di: Redazione
Le drammatiche tappe della pandemia, segnate dal numero dei morti sempre crescente (la Francia si sta aggiungendo al gruppo di Paesi - Stati Uniti, Brasile, India, Messico, Regno Unito, Italia e Russia - che hanno avuto più di centomila decessi ), oltre ai normali interrogativi di carattere sanitario, ne sta ponendo altri che meritano d'essere approfonditi. Come quello di come i media di tutto il mondo abbiano preso coscienza dell'ampiezza e delle conseguenze della pandemia, inizialmente guardata quasi con distacco, come se si trattasse di un problema che si sarebbe spento da solo nel giro di poche settimane.
Una interessante analisi, pubblicata da Le Monde, sottolinea un aspetto che, per paradossale che possa apparire, è forse troppo evidente per conquistare l'attenzione: a più di un anno dall'inizio della pandemia, "la litania quotidiana di casi e morti ha lasciato il posto a una forma di stanchezza. Come spiegare quindi l'entità del bilancio delle vittime? Come onorare la memoria delle vittime? Come umanizzare queste vite perse, diluite nelle statistiche della crisi sanitaria?".
Lo scorrere delle statistiche ormai fa parte di un rito quotidiano al quale tutti si sono, loro malgrado, abituati, quasi che il tributo di morti al Covid sia scontato. Ma occorre ricordare che negli Stati Uniti, flagellati dal virus, le prime domande sull'effettiva portata della pandemia risalgono al 27 maggio 2020. Il Washington Post, che agli albori della pandemia raffigurava graficamente le vittime come fossero solitari raggi di luce su una mappa del Paese, oggi, quasi a risvegliare la gente dal torpore della routine, sottolinea, parlando dei decessi, che "è come se tutti gli abitanti di Edison, nel New Jersey, o Kenosha, nel Wisconsin, fossero morti. Questo (numero, ndr) è la metà della popolazione di Salt Lake City, (la capitale dello Utah, ndr) o Grand Rapids, in Michigan".
Lo stesso quotidiano in un editoriale intitolato ''Le vite perdute'', ricordando la prima vittima americana, Patricia Cabello Dowd, afferma come gli Stati Uniti, nel giro di 15 settimane, pur rappresentando solo il 5% della popolazione mondiale, abbiano registrato un terzo dei decessi. Una cosa che nei media fa scattare una stessa reazione, che il Washington Posat sintetizza come la volontà di rendere omaggio a chi "si nasconde dietro queste oscure statistiche".
La percezione dell'ampiezza del dramma ha quindi indotto i media americani ad una netta sterzata nella copertura giornalistica e, come ha fatto il New York Times, in una delle sue edizioni domenicali (tradizionalmente le più ricche e più lette) a pubblicare ''paginoni'' con le fotografie e brevi biografie di vittime la cui vita aveva elementi distintivi: "Joe Diffie, 62 anni, Nashville, star della musica country premiata ai Grammy", "Lila A. Fenwick, 87 anni, New York, prima donna di colore a diplomarsi alla Harvard Law School", "Myles Coker, 69, New York, rilasciato dopo essere stato condannato all'ergastolo".
Non una edizione di "respiro nazionale" dell'Antologia di Spoon River, ma qualcosa, ha spiegato Marc Lacey, capo redattore del NYT, che "la gente potesse leggere tra un centinaio di anni per capire il peso di ciò che stiamo attraversando".
Il New York Times, come gli altri media americani, ha seguito l'evolversi della pandemia attraverso il numero delle vittime. Quindi, grande attenzione a quando hanno toccato la soglia dei 100.000 e quando i morti sono stati più di 500 mila. In poco più di dodici mesi, ha scritto il NYT, "sono morti più americani a causa del Covid-19 che sui campi di battaglia della prima guerra mondiale, della seconda guerra mondiale e della guerra del Vietnam messi insieme".
In altri Paesi del mondo, anch'essi duramente feriti dal virus, le riflessioni sono state pressoché eguali. Come ha fatto la redazione brasiliana della Bbc, guardando anche ad aspetti che sono importanti, ma verso i quali esiste una certa ritrosia a soffermarsi. Come la saturazione dei cimiteri, come documentato da foto ed immagini che hanno raccontato come l'impreparazione alla pandemia sia un ostacolo al ricordo di chi non c'è più, venendogli negata una sepoltura degna di questo nome.
Spesso i media hanno scelto di affidare il proprio sgomento alla semplicità dei numeri. Come ha fatto l'Hindustan Times, che ha seguito passo passo la pandemia in India: "Il 12 marzo 2020, la prima morte per Covid-19 è stata segnalata in Karnataka e 127 giorni dopo, il 16 luglio, ci sono stati 25.000 morti nel Paese. Il 15 agosto - solo un mese dopo - l'India ha superato la soglia delle 50.000 persone morte. Il 9 settembre, il numero di morti ha superato la soglia di 75.000 e gli ultimi 25.000 morti sono stati registrati in soli ventitré giorni".
La morte e il dolore di chi resta sono state efficacemente raccontate in Messico da una giornalista della trasmissione televisiva Milenio: "Centomila vite perse, 100.000 famiglie amputate". Spesso i media, per dare una dimensione più comprensibile all'ampiezza della tragedia, ne paragonano la portata del numero dei morti a quelli di una o più guerre. È accaduto un po' ovunque, come in Gran Bretagna. Ma ci sono media che non sembrano cogliere (per scelta o per opportunismo) la drammaticità del momento. Come nel caso della Russia. Ma con delle voci che hanno voluto staccarsi dal conformismo generalizzato. "Perché i russi" - si è interrogato il quotidiano The Moscow Times, parlando del numero dei morti - "non sono più arrabbiati?". La risposta è stata conseguenziale: "Secondo gli esperti, questa indifferenza può essere spiegata dal fatto che i media controllati dallo Stato non riportano l'eccesso di mortalità, che l'enfasi è sull'impatto economico della pandemia e che c'è una tendenza culturale a accettare morti su larga scala".