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Omicidio Diabolik: ergastolo per il killer, vero processo è quello all'universo Ultras

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Omicidio Diabolik: ergastolo per il killer, vero processo è quello all'universo Ultras

Alejandro Musumeci è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Fabrizio Piscitelli, noto come “Diabolik”, capo carismatico degli Irriducibili della Lazio. La sentenza della Corte d’Assise arriva dopo anni di indagini tortuose e zone d’ombra mai del tutto illuminate. Ma la verità giudiziaria, seppur netta, non basta a chiudere un capitolo che travalica il singolo crimine: l’assassinio di Diabolik resta un punto di rottura nella narrazione delle curve italiane, un evento simbolico che svela la metamorfosi dell’universo ultras.

Omicidio Diabolik: ergastolo per il killer, vero processo è quello all'universo Ultras

Fabrizio Piscitelli non era un semplice tifoso. La sua figura aveva assunto nel tempo lo spessore di un emblema: per alcuni eroe di una comunità antagonista, per altri icona inquietante di una commistione opaca tra tifo, criminalità, ideologia e controllo territoriale. Nato nei primi anni ’90 come leader degli Irriducibili, Diabolik ha incarnato l’evoluzione – o la degenerazione – di una certa cultura ultras: organizzazione gerarchica, estetica militante, potere dentro e fuori dallo stadio. Il suo nome, ispirato al fumetto dell’antieroe per eccellenza, rifletteva una mitologia urbana che travalicava la partita.

L’omicidio come spartiacque
Il 7 agosto 2019, Piscitelli viene freddato con un colpo di pistola alla nuca, in pieno giorno, nel parco degli Acquedotti, a Roma. Un’esecuzione fredda, militare, un messaggio. Il movente ufficiale riconosciuto dagli inquirenti ruota intorno a partite di droga e vendette tra clan. Ma nel sottobosco romano la lettura è più complessa: l’omicidio di Diabolik ha rappresentato una frattura simbolica, la fine di una leadership trasversale che teneva insieme pezzi di mondo ultras, criminalità organizzata e spazi grigi del potere metropolitano.

Ultras, crimine e controllo: un equilibrio infranto
Per anni, alcune curve italiane hanno rappresentato microcosmi autonomi, dove le dinamiche interne seguono logiche parallele a quelle delle istituzioni. Le tifoserie più radicali – non solo della Lazio – hanno saputo costruire reti di solidarietà, ma anche di pressione, spesso al limite della legalità. La figura del capo ultras si configura non solo come guida emotiva, ma anche come autorità effettiva, capace di influenzare l’ordine pubblico, la gestione del tifo, i rapporti con le società calcistiche. Diabolik incarnava questa funzione con forza e ambiguità. La sua morte ha lasciato un vuoto che ha generato frammentazione e violenza.

L'identità ultras nell’epoca post-Diabolik
Il processo a Musumeci si è mosso nei confini della responsabilità individuale. Ma resta una domanda collettiva: cosa resta dell’universo ultras oggi? Negli ultimi anni, le curve sono cambiate. Repressione, DASPO, tecnologie di controllo, e la pandemia hanno ridisegnato la mappa del tifo organizzato. Eppure, il codice identitario – fatto di fedeltà assoluta, ritualità, opposizione al sistema – resiste. La figura di Diabolik continua a vivere nei cori, nei murales, nei gadget venduti in rete. Per alcuni è diventato un martire, per altri un fantasma ingombrante.

Lo Stato tra deterrenza e incomprensione

Il rapporto tra istituzioni e ultras è da sempre segnato da oscillazioni: dalla tolleranza silenziosa alla repressione, dall’infiltrazione al contrasto. Il caso Piscitelli ha dimostrato quanto sia difficile penetrare davvero le logiche interne di questi gruppi, che spesso usano linguaggi e strutture proprie. La condanna di Musumeci rappresenta un’affermazione importante dello Stato di diritto, ma resta isolata se non inserita in un disegno più ampio di comprensione sociologica del fenomeno. L’ultras non è solo un violento da punire, ma un soggetto collettivo da decifrare, con le sue regole, la sua etica tribale, la sua cultura di resistenza.

Memoria, potere e narrazione
Dopo la sua morte, Piscitelli è diventato mito e monito. Le sue immagini campeggiano in striscioni e murales, non solo a Roma. Il suo nome viene evocato nei comunicati delle curve, a volte in tono eroico, altre con imbarazzo. La sua parabola è la sintesi di un’epoca in cui le curve erano potere reale, in grado di mediare tra popolo e sistema, tra stadio e strada. Il suo omicidio ha segnato il crollo di un equilibrio costruito su silenzi, alleanze sotterranee e zone grigie. La sentenza chiude una vicenda giudiziaria, ma non cancella l’effetto tellurico che quell’omicidio ha avuto su un intero universo che ancora oggi, nel bene e nel male, cerca di ridefinire sé stesso.

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