Usa: Costituzione tradita, che fine ha fatto la "ricerca della felicità"?

- di: Diego Minuti
 
La maggior parte dei cinefili non ha mai colto la sottintesa ironia con la quale Gabriele Muccino, nel 2006, scegliendo come protagonista Will Smith, intitolò il suo primo film americano ''La ricerca della felicità'', che per molti suonava come un auspicio, come qualcosa che motiva l'individuo a volere per sé ed i suoi cari il meglio, almeno a livello di soddisfazione personale.
Invece quella frase, ''Ricerca della felicità'', è datata ed è scritta nella Costituzione degli Stati Uniti come fosse un diritto dei cittadini.

Non un sogno, non una aspirazione, ma un diritto, ovvero qualcosa che non può essere negato a chicchessia, quale possano essere la sua estrazione sociale, la sua religione, le sue origini, il colore della sua pelle. Ricerca della felicità, quindi, alla base della convivenza civile, nel senso che la felicità di uno non può essere raggiunta a nocumento di quella dell'altro, dal momento che, appunto perché diritto, non è un obiettivo comune, ma al quale tutti devono ambire.

Quella frase, che statuì un diritto che allora - e forse ancora oggi - non lo era, fu elaborata non da un oscuro delegato, da un comunque sempre ammirevole Padre costituente, ma da Thomas Jefferson, che sarebbe stato il terzo presidente degli Stati Uniti (due mandati consecutivi, dal 1801 al 1809) e nel cuore di tutti gli americani. Tanto (insieme a George Washington, Theodore Roosvelt e Abraham Lincoln) è uno dei quattro presidenti il cui volto è stato scolpito sulla roccia del monte Rushmore, nel South Dakota.
Per inciso, Thomas Jefferson, che augurava ai suoi connazionali di raggiungere la felicità, era da latifondista anche proprietario di schiavi, ma questo è un altro discorso e lo dico alla luce di quanto sta accadendo in queste settimane.

Ma torniamo agli americani ed alle speranze e ai sogni che hanno coltivato sin dalla nascita della loro Repubblica, che doveva essere la migliore del mondo, intrisa, come si volle che fosse, dei principi dell'illuminismo, della democrazia più vicina al senso stesso di questa parola. Oggi quella valigia pieni di sogni e di ambizioni sembra essere stata messa al buio in uno sgabuzzino, che viene aperto sporadicamente. La realtà è ben diversa da quella che si sognò oltre duecento anni fa, pur se con le consuetudini di quel tempo.
Il più evidente sfregio alla felicità come diritto di tutti è la mancata vera integrazione, che potremmo tradurre (anche se è operazione semantica ardita) in una discriminazione che poggia sulla razza, ma anche sul censo. Un insieme di cose che poi determina l'ergersi di barriere alla piena parità di trattamento e di salario tra generi, tra razze, tra minoranze, in campi delicatissimi e vitali, quali l'istruzione e l'assistenza sanitaria, messa, quest'ultima, a durissima prova dall'emergenza Covid-19, che ha dimostrato, per immagini e con i numeri, come ci siano ancora almeno due Americhe. La prima al sicuro, qualsiasi cosa possa accadere; la seconda, esposta a tutto perché priva di vere difese.

A tale proposito il saggista francese Guy Sorman ha scritto, e come si potrebbe non essere d'accordo con lui, che ''ogni cittadino americano crede o dovrebbe credere che, con il suo unico sforzo individuale, sarà in grado di migliorare la sua sorte, qualunque sia la sua origine culturale o sociale: questo sogno americano, dalle origini, attira gli immigrati che costituiscono la nazione e permette, in linea di principio, per uomini e donne, infinitamente diversi per origine, cultura, convinzione, convivenza''. Quindi la Costituzione è il contratto sociale, l'economia di mercato è la possibilità concessa a tutti di raggiungere i rispettivi traguardi (come la ''scala di Giacobbe").

È abbastanza scontato che il sogno di afferrare la felicità si alimenta con il benessere economico, anche se esso non è uguale per tutti. Se l'economia va bene e distribuisce reddito, sia pure in misura molto diversa, il sistema - inteso come equilibrio tra le varie componenti sociali - regge e con esso lo Stato, in questo caso americano, che viene visto come garante, come equilibratore, come dispensatore di benefici, anche se essi non toccano a tutti nella medesima misura. Ma quando il sistema comincia a perdere colpi, a prevalere è la disaffezione verso lo Stato e l'immagine di equanimità che esso dovrebbe incarnare.

La discriminazione, quindi, come evidenza e non più come ipotesi di studio, perché c'è ancora, è tangibile, è tragicamente presente nella vita quotidiana. Come dimostra l'emergenza da Corona Virus. Dice ancora Sorman: ''gli afroamericani principalmente, ma anche i latini, recentemente immigrati, sono, al momento, colpiti dalla pandemia di Covid-19 il doppio in proporzione dei bianchi. Non è una sfortunata coincidenza, ma una rivelazione della loro situazione sociale: sono i più poveri degli americani, i più frequentemente colpiti da malattie croniche che non vengono curate, come il diabete, perché, al di fuori di emergenze ospedaliere, non hanno un'assicurazione sanitaria''.

Questa la sanità. Ma anche il mercato del lavoro conferma che la discriminazione ha molti volti. Nel momento in cui Donald Trump dava fiato ai tromboni della sua personale fanfara, dicendo che mai come sotto la sua presidenza la disoccupazione era un mostro domato, ci sono altre rilevazioni che devono indurre alla riflessione. Perché se la disoccupazione accertata tra chi è in età produttiva tocca il 20 per cento, ci sono motivi che vanno oltre le dinamiche del mercato del lavoro. Perché quando c'è da licenziare, i primi a essere tagliati sono i posti occupati da appartenenti minoranze razziali. Che spesso non hanno assicurazioni sanitarie (fondamentali negli Stati Uniti) e che quindi, in caso di necessità, devono fare ricorso ad associazioni caritatevoli (laiche ed espressione delle Chiese) e filantropiche o, ma solo in alcuni Stati, a sussidi pubblici locali.

Il giudizio di Guy Sorman è lapidario: ''Certo, la schiavitù è scomparsa, la discriminazione razziale è illegale, un terzo degli afroamericani e molti latinoamericani si sono uniti alle classi medie e alte; ma la maggioranza rimane un sottoproletariato che molti bianchi disprezzano''. Difficile non essere d'accordo, basta seguire le cronache recenti e no che vedono appartenenti a classi sociali ed a entità razziali minoritarie oggetto di discriminazioni e violenze.

C'è stata una presa d'atto generalizzata (ad eccezione di chi, Donald Trump, aveva l'obbligo di uscire dal sentiero dell'ambiguità), che si è tradotta in una generica adesione alle proteste.
Ma sino a quanto durerà? Probabilmente si andrà spegnendo con il passare dei giorni, a meno di ennesime esibizioni di gratuita violenza contro chi non ha voce.
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