Sono state le memorie di Antonio Pigafetta a far conoscere l’impresa della circumnavigazione terrestre di Ferdinando Magellano; con l’epopea dei grandi navigatori, è iniziato quel predominio europeo sul mondo, che nei 5 secoli successivi, si è affermato ovunque. Il processo di “occidentalizzazione”, di nazioni e territori anche lontani, chiamato globalizzazione arcaica o proto-globalizzazione, ha innescato un processo di civilizzazione e di diffusione del benessere. Ma negli ultimi vent’anni il termine “globalizzazione”, sui mass media e nei discorsi della gente, non si è più identificato con l’idea di progresso, ne tanto meno con quella di ricchezza diffusa, ma sempre più spesso con il suo contrario.
Ciò è dipeso da due eventi che, negli anni 90, hanno cambiato il corso della Storia: uno politico, con la caduta del muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda, e l’altro economico, con il progressivo coinvolgimento della Cina nel commercio mondiale. Questi due eventi, apparentemente indipendenti, sono tra loro strettamente connessi: perché la fine del muro di Berlino, con il collasso dell’Urss, è il risultato della grande alleanza (stipulata nel 1972 da Nixon e Mao) tra gli Stati Uniti d’America e la Repubblica popolare Cinese. Il progetto della superpotenza americana aveva, infatti, previsto che, attraverso un totale accerchiamento, si poteva far implodere il regime sovietico.
Tra il 1989 ed il 1992 gli Anglo Americani raggiungevano pertanto lo storico obiettivo di mettere la parola fine a settant’anni di confronto, anche bellico, con l’Unione Sovietica. Uno scontro iniziato con la rivoluzione d’Ottobre, nel quale il comunismo si era presentato presso le giovani democrazie europee ed aveva sedotto i regimi di molte ex colonie, come possibile alternativa al capitalismo di stampo anglosassone. La paura della diffusione del comunismo è stato il vero motore delle vicende del XX° secolo, un grande spauracchio contro cui le elites liberali hanno reagito con qualsiasi mezzo, fin dall’Ottocento, quando i monopoli imprenditoriali euro-americani si iniziarono ad integrare e coalizzare per contrastare la diffusione delle associazioni operaie internazionaliste. Più cresceva la ricchezza delle grandi famiglie capitaliste e più diventava necessario impedire alla massa lavoratrice organizzata di sbarazzarsi dei proprietari delle fabbriche. Con i fatti del 1989 e con la disgregazione dell’”Impero sovietico”, questa minaccia esiziale via, via, scompariva e la concezione liberista diventava l’unica pratica economica consentita, con il mondo che da allora in poi veniva ovunque sottomesso alle leggi economiche ed alla “moralità” dei mercati.
Milton Friedman, che aveva teorizzato la privatizzazione capillare come antidoto alle inutili spese sociali, per questa brillante teoria, riceveva nel 1976 il premio Nobel per l’economia. Cosi che, di pari passo allo smantellamento dello stato sociale, le elites imprenditoriali, non più minacciate in casa dal comunismo, potevano dedicarsi alla ricerca di maggiori e più facili guadagni. Imprenditori arrivati alla terza o quarta generazione decisero di vendere i vecchi stabilimenti, che vennero trasformati in case ed uffici (come alla Pirelli- Bicocca di Milano o alla Fiat - Lingotto di Torino), troncarono ogni rapporto con il territorio e con i vecchi dipendenti (che direttamente o indirettamente finirono a carico dello Stato) e trasferirono la produzione industriale in Cina. Quando cominciarono a vedersi gli effetti di questo processo, che occupò tutti gli anni “90”, l’idea di progresso dell’umanità iniziò a perdere la sua coincidenza con quella di globalizzazione dei mercati. Questa progressiva integrazione tra le elites ultraliberiste angloamericane e l’immenso popolo cinese (ma anche indiano ed indocinese) è stata la vera causa dell’annientamento della borghesia occidentale, che, fin ad allora e fin dai tempi della rivoluzione francese, era sempre cresciuta in ricchezza e diritti. Anche i Paesi del Secondo e del Terzo Mondo negli stessi anni subirono un processo di arretramento e di devastazione sociale: nazioni come l’Egitto, la Tunisia, l’Algeria o il Marocco, che sembravano avviati verso il benessere e la democrazia, perdevano in pochi anni la gran parte del loro potenziale economico, trovandosi costretti a rifugiarsi nelle forme di potere teocratico per evitare il conflitto sociale permanente. Gli squilibri determinati da questo radicale svuotamento e trasferimento della produzione dagli antichi centri industriali verso l’Estremo Oriente (che in quindici anni passava dalla civiltà contadina alla massima industrializzazione) vennero raccontati dal mondo dell’informazione (che nel frattempo si era concentrata in pochissime mani) come il miracolo cinese: una variabile indipendente, imprevedibile ed antagonista all’esausto mondo occidentale. Una narrazione tanto inverosimile, quanto ben orchestrata, che ha steso un velo d’oblio su quali capitali un paese del terzo mondo come la Cina avesse utilizzato per compiere in quindici anni la stessa crescita che l’Occidente aveva compiuto in due secoli: non si chiesero chi avesse portato fin laggiù le tecnologie, chi avesse aperto mercati e chi avesse consentito alla Cina di approvvigionarsi delle necessarie risorse petrolifere. In quegli stessi anni i mass media descrivevano i movimenti “No global” come pericolosi terroristi ed evitavano accuratamente di censurare quei gruppi industriali, che spostavano la loro sede nei paradisi fiscali per non pagare le tasse sui lauti proventi dell’economia globalizzata.
Il braccio politico di questa vera e propria rapina alla ricchezza occidentale fu il Partito Democratico Americano di Bill Clinton, che costruì con la Cina un doppio vincolo economico, per vendere agli occidentali le merci prodotte dai cinesi e di converso obbligando il governo cinese ad investirne i ricavi nel sostegno al debito pubblico statunitense. Il fenomeno della globalizzazione fu quindi un progetto pensato ed imposto dall’oligarchia mercatista americana: furono aziende come la Apple che scelsero di far assemblare i loro telefoni in Cina, preferendo dare paghe miserabili ai lavoratori cinesi, piuttosto che stipendi sindacalizzati agli esigenti lavoratori occidentali. È quindi quest’associazione occulta di elites finanziarie, politiche e mediatiche, l’unico responsabile dell’attuale situazione, che ancora ci viene presentata come un imprevedibile sviluppo della Storia; sono le oligarchie globaliste che nel 1989 riescono a far cadere il muro di Berlino, ma allo stesso tempo puntellano il regime cinese, minacciato dai moti popolari di piazza Tien anmen; nel 2004 sarà Yahoo a dare al Governo cinese i tabulati per rintracciare Shi Tao, il giornalista che aveva diffuso via internet le direttive della polizia di regime per neutralizzare la rete dei dissidenti di piazza Tien An men. Ma nello scacchiere geopolitico globalizzato, ogni ruolo deve essere provvisorio, affinché rimanga sempre subordinato agli interessi oligarchici, per cui anche il boom cinese è destinato ad indebolirsi, qualora il suo regime prenda una direzione che i leader globali non condividono (questi programmi di “contenimento”sono già stati usati in Italia: con attentati ed omicidi eccellenti, in Cile con la defenestrazione di Allende, o Iran con la sostituzione dell’ambizioso Scià). Se quindi il progetto di riarmo cinese proseguirà con la costituzione di una poderosa flotta di sommergibili e portaerei, possiamo esser certi, che assisteremo all’intensificarsi della protesta ad Hong Kong, all’innalzamento di dazi protezionistici ed all’infittirsi degli incontri di Trump con il dittatore coreano Kim Jong-Un.
Per nascondere agli elettori i veri responsabili e la sistematicità di questo progetto di macelleria sociale, le oligarchie globaliste non hanno tralasciato di occuparsi del controllo politico delle masse, dedicandosi alla creazione di una nuova classe dirigente, che sotto la bandiera dell’onestà potesse sviare ed incanalare la protesta verso candidati totalmente inadeguati; dei dilettanti che avrebbero trasformato antiche democrazie in un teatrino privo di aderenza con la realtà dei fatti e sostanzialmente ininfluente sul corso delle cose. Ma come tutte le rappresentazioni, anche l’attuale simulacro di Governo sarebbe rimasto efficace soltanto se lo spettatore non si fosse mai spinto oltre, se non fosse riuscito a vedere i fili, ne tanto meno il puparo che li muoveva. Le manipolazioni che davano vita all’azione, pertanto, dovevano rimanere sempre oscure ed imperscrutabili, così come assolutamente inconoscibili dovevano essere coloro che stavano dietro le quinte. Per ottenere questa “cortina fumogena”, che distraesse le masse e non facesse scoprire al popolo chi erano i responsabili delle privazioni che subiva, veniva generato ed alimentato un clima d’ansia, che facesse temere ai cittadini di perdere quel poco che gli era rimasto ed anche la loro stessa vita. Dal 2001 (in coincidenza con l’ingresso della Cina nel wto), i quotidiani e ed i telegiornali si riempirono di eventi catastrofici: dagli efferati attacchi aerei alle Twin Towers, con i conseguenti conflitti di ritorsione, alla lunga scia di attentati, compiuti dal crudele al Quaeda, che per anni ha minacciato le metropoli occidentali con cospiratori incappucciati, muniti di pugnale e cintura esplosiva. Poi, proprio come avviene in teatro, lo scenario è cambiato ed il pubblico è stato avvinto dal minaccioso Virus, ancora più subdolo ed inconoscibile dell’islamista mascherato, che dopo aver distrutto attraverso il confinamento sociale, quel poco di imprenditoria locale che ancora resisteva, si appresta a consegnare il popolo europeo, finalmente inerme, alla dittatura telematica.