Equo compenso e concorrenza

- di: Nikolaus W.M. Suck
 

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato con la propria contrarietà a ogni forma di minimi tariffari continua a disconoscere le caratteristiche dell’attività professionale, che non è di impresa. 

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato con parere del 24 novembre 2017 nell’ambito del potere di segnalazione a Parlamento e Governo si è nuovamente espressa in tema di tariffe professionali. Avversando, come da oltre vent’anni, i minimi tariffari.
Nei presupposti da cui muove l’Autorità, i professionisti sono imprese come ogni operatore economico che colloca beni o servizi sul mercato (secondo la nozione di impresa elaborata nel diritto europeo della concorrenza); e anche per loro come per ogni impresa il mezzo concorrenziale principale è il prezzo.
L’occasione del parere è stata l’introduzione del c.d. equo compenso per i professionisti in sede di conversione del “decreto fiscale” d.l. n. 148/2017. Ovvero che nei rapporti regolati da convenzioni con banche, assicurazioni e grandi imprese il compenso per i professionisti sia “equo”, cioè proporzionato a quantità e qualità del lavoro e a contenuto e caratteristiche della prestazione, tenuto conto dei parametri ministeriali esistenti. Sono ritenute vessatorie una serie di clausole quando provocano uno squilibrio significativo a danno del professionista, se non specificamente pattuite e approvate. Esse sono sanzionate con la nullità deducibile dal solo professionista, per il quale in tal caso l’equo compenso è stabilito dal Giudice.
Se l’intenzione della disciplina era di ridurre il potere contrattuale dei grandi clienti sul lato della domanda, spesso esitato nella imposizione unilaterale di condizioni economiche al ribasso, l’efficacia è tutta da vedere.

Intanto, secondo l’Autorità Garante tale disciplina (frattanto introdotta nell’ordinamento con il nuovo art. 13bis della legge n. 247/2012, inserito dalla legge di conversione n. 172 del 4 dicembre 2017) sarebbe in contrasto con consolidati principi di tutela della concorrenza e con le iniziative di liberalizzazione pregresse. In particolare affermerebbe un “principio generale” di vessatorietà e nullità delle clausole per compensi inferiori ai “parametri”, reintroducendo “di fatto” i minimi tariffari, e sottrarrebbe alla libera contrattazione il compenso dei professionisti, impedendo loro un comportamento economico indipendente sul prezzo, espressamente definito “il più importante strumento concorrenziale”.
Tali assunti non sembrano però condivisibili. La norma non introduce nessun “principio generale” di vessatorietà e nullità di corrispettivi inferiori ai parametri ministeriali. Tanto meno ristabilisce alcun “minimo tariffario”. La disciplina non è di applicazione generale ma vale nei soli rapporti disciplinati da convenzioni (che non sono la regola) con banche, assicurazioni e grandi imprese. E anche in tale ristretto ambito si limita ad introdurre la nozione di compenso equo, ancorata a quantità, qualità e contenuti del lavoro (e non a tariffe minime), e a prevedere la vessatorietà, in date circostanze, delle sole clausole elencate, tra cui non vi sono quelle per corrispettivi inferiori ai parametri. Questi rimangono, come in precedenza, meri riferimenti non vincolanti tra le parti.
Più in generale non si condivide la identificazione tra professionisti e impresa e la valorizzazione indistinta del prezzo come primo strumento concorrenziale, per almeno due ragioni già ben note. Primo, identificare i professionisti come imprese in senso euro unitario come sopra non solo è fuorviante, li snatura. L’assimilazione è nata nello specifico ambito della disciplina delle intese restrittive e degli abusi di posizione dominante anticoncorrenziali, ma nulla impone una automatica estensione della stessa a tutti gli aspetti della disciplina delle professioni. Alla nozione oggettiva di impresa è sottesa quella soggettiva dell’imprenditore, definito dalla legge come chi svolge attività organizzata per la produzione di beni e servizi. L’impresa è questo: organizzazione di fattori produttivi (mezzi e lavoro), finalizzata alla produzione. Che per la legge vada svolta “professionalmente” non deve fuorviare e non vale di per sé ad assimilare gli imprenditori ai professionisti, o viceversa.

I professionisti sono altro, e infatti sono definiti dalla legge distintamente e diversamente, come prestatori di opera intellettuale che sarebbe riduttivo, e ulteriormente fuorviante, ritenere mera “produzione di servizi”. Salvo includere nel “processo produttivo” anche studio, preparazione ed esperienza necessari per risultati “a regola d’arte”. Nel qual caso, però, si colgono ancor meglio la distinzione e la diversità di essenza: nell’impresa in primo piano è l’elemento organizzativo dei fattori della produzione, e conta (sapere) organizzare tali fattori ai fini del risultato produttivo. Invece per i professionisti lo è il risultato in sé, ovvero la prestazione come tale. Conta l’elemento soggettivo della stessa, che ne costituisce anche il risultato.
Certo, anche la professione può essere organizzata come impresa. Ma non deve esserlo. Più lo è, più ci si allontana – giocoforza – dalla sua essenza, per rientrare in quella dell’imprenditore, che non si limita a fornire la prestazione in proprio ma organizza mezzi e risorse per farlo. Ritenere o esigere che sia e debba essere sempre così è appunto fuorviante. L’essenza dell’attività professionale non è questa.

Secondo, il prezzo della prestazione non è e non deve essere il primo strumento concorrenziale dei professionisti. Può esserlo per gli imprenditori che devono appunto organizzare l’attività produttiva in modo efficiente ed economico. Ma i professionisti per fornire la prestazione devono (pre)occuparsi in primo luogo non di organizzare ma di studiare. Per cui la loro principale leva concorrenziale, anche per la domanda, è quella della competenza e preparazione. I professionisti più affermati non sono mai quelli più economici, ma i più esperti, e si scelgono in primo luogo per questo.
Ecco perché le tariffe minime non sono una “protezione” dei professionisti già affermati, che godrebbero di una “rendita di posizione” a scapito dei colleghi più giovani che non potrebbero entrare nel mercato offrendo prezzi “più bassi”. Tale tesi assimila impropriamente le tariffe minime con i prezzi fissi. Solo applicando prezzi fissi, uguali e inderogabili per tutti, più o meno giovani e/o affermati, potrebbe (forse) realizzarsi la conseguenza paventata dall’Autorità. Ma un minimo non è fisso. E’, appunto, solo minimo, e ampiamente derogabile a partire dallo stesso. Ed è normale che il valore delle prestazioni aumenti con l’esperienza e con la pratica. Per “farsi conoscere sul mercato” bisogna essere anzi tutto bravi prima che economici. Il che non impedisce affatto una concorrenza anche di prezzo, ben potendo pure il professionista più esperto decidere di lavorare al “minimo”.
Il ragionamento astratto dell’Autorità nella prassi non porta affatto all’eliminazione delle rendite di posizione, né a maggiore concorrenza a favore dei più giovani. Tutto il contrario. Imponendo ai professionisti logiche di prezzo si produce solo un livellamento verso il basso – senza limiti – dei compensi a svantaggio di tutti i professionisti, e quelli giovani non potranno mai nemmeno costituirsi risorse professionali con cui sperare di “affermarsi”. A tutto vantaggio proprio dei professionisti e studi più grandi e/o affermati, protetti non certo da eventuali minimi tariffari bensì dal “volano” di clienti e lavoro grazie a cui possono praticare e sostenere prezzi al ribasso (e in assenza di limiti anche “predatori”), in una misura che professionisti meno “affermati”, specie se “giovani”, non potranno mai ragionevolmente praticare.

La stessa Autorità riconosce che il valore della prestazione “si percepisce nel tempo” e che al momento della scelta “la reputazione del professionista assume un’importanza cruciale”, cioè che valore della prestazione e scelta del professionista si fondano su fattori diversi dal prezzo. Allora non si vede perché poi il cliente sarebbe invece “indotto a dare fiducia” a un professionista “meno affermato” per mere logiche di prezzo, cui la “fiducia” che fonda il rapporto con il professionista è invece di per sé largamente aliena.
Fuorviante anche la tesi che le “possibili situazioni di squilibrio contrattuale”, che è oggettivamente impossibile negare, andrebbero affrontate “mediante il migliore utilizzo delle opportunità offerte dai nuovi modelli organizzativi”, in particolare mediante studi professionali in forma di società di capitali o multidisciplinari, “attraverso i quali si possono certamente raggiungere elevate economie di scala”. Il raggiungimento di “economie di scala” è oggetto precipuo dell’attività di impresa, non di quella professionale, che si fonda su competenza e preparazione prima che su modelli organizzativi. Invece nella concezione dell’Autorità l’organizzazione, caratteristica dell’impresa e non della professione intellettuale, diviene anche per quest’ultima non più scelta ma imposizione e necessità. Con ciò non solo snaturando nell’essenza le professioni, ma anche privilegiando gli studi strutturati più o meno grandi, e non la concorrenza con e tra i giovani, che al contrario ne saranno in gran parte “fagocitati” perdendo identità personale e professionale.

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