A tutti nota come una delle eccellenze del nostro Paese apprezzate nel mondo, con i suoi ritmi palpitanti, ora soavi e struggenti, ora veloci e rabbiosi, la canzone napoletana è un simbolo della tradizione musicale italiana che mantiene inalterata nei secoli la sua attrattiva.
Le parole che animano e danzano su queste incredibili sonorità sono vere e proprie poesie che raccontano di amori intensi che si fa fatica a dichiarare, come in “Te voglio bene assaje”, o dell’audace arroganza e spavalderia meglio nota come “Guapperia” o, ancora, del fascino e della bramosia che può suscitare una donna nell’animo di un uomo al suo solo passaggio, come canta “A tazza e cafè”.
Difficile immaginare che un simile perfetto equilibrio di parole e musica possa essere in qualche modo ripensato e valorizzato.
È, pertanto, quasi inevitabile approcciarsi con prudenza, se non addirittura con una certa diffidenza, all’idea di una rivisitazione in chiave moderna delle canzoni napoletane, con inserti musicali provenienti da altre epoche e da altri luoghi del mondo. Ed è forse questa sottile perplessità ad accompagnare lo spettatore nell’entrata a teatro, nell’attesa che il sipario si apra per dare inizio allo spettacolo dei Neacò: Neapolitan Contamination (Contaminazione della Napoletanità, potremmo dire). L’esibizione del 22 aprile scorso del gruppo musicale che dà lo spunto a questa recensione si è tenuta, peraltro, presso il “Teatro degli Audaci” che, in effetti, sembrava essere il nome più appropriato per il luogo in cui affrontare una simile sfida.
Eppure sono bastate poche canzoni a sciogliere completamente quel nodo iniziale ed a lasciare vagare la mente dello spettatore, soavemente persa dietro ai ritmi ed alle sonorità proposte da questi straordinari artisti.
E così un morbido blues diviene la nuova base di “O’ Surdato ‘Nnamurato”; “Malafemmena” ancheggia sulla spiaggia di Ipanema a ritmo di samba; “’Guapparia” diventa uno swing in omaggio a Fred Buscaglione e Brigida incanta i suoi osservatori mentre il palpitare dei loro cuori si trasforma in reggae perché, se a Napoli si beve forse il miglior caffè del mondo, la migliore pianta di caffè del mondo nasce nelle Blue Mountains della Giamaica.
Si viaggia così dall’Argentina ai Caraibi, all’America del Nord, fino all’Europa e poi alla lontana Africa, mescolando le canzoni napoletane ora con il tango, ora con il rap, ora con il 5/4 di Take Five ed il flamenco.
“Tu si ‘na cosa grande” non ha più l’esplosività e la forza con la quale la ricordavamo nella celebre interpretazione di Domenico Modugno, ma è quasi sussurrata, nello stile delle canzoni dell’esistenzialismo francese, poiché ciò che è davvero grande e profondo è nell’intimo.
Rimpianti? Nessuno. La canzone, anche in questa nuova versione, mantiene intatta la sua straordinarietà ed il suo vigore.
Così, alla fine, le voci convincenti di Antonio Carluccio e Lavinia Mancusi, le percussioni di Giovanni Imparato e la chitarra di Mats Hedberg, i fiati di Davide Grottelli, il basso di Aldo Perris e le tastiere di Luigi Carbone – che fa anche da voce narrante nello spettacolo – riescono in un’impresa davvero “audace”. Ci consentono di aprire ad altri spazi e ad altri luoghi la canzone della tradizione napoletana che avevamo idealmente racchiuso in una teca spazio-temporale nella quale viene forse spontaneo custodire un’opera d’arte qual essa è. E la nuova versione proposta non fa rimpiangere l’originale.
Ma si può dire di più. La contaminazione della canzone napoletana diventa in realtà una corretta interpretazione della sua essenza ed un omaggio a ciò che Napoli effettivamente è ed è stata nei secoli: un luogo di incontro di culture e civiltà, un laboratorio di apprendimento e di elaborazione delle diversità. Come ricorda spesso la voce narrante dello spettacolo Luigi Carbone, Napoli – crocevia di popoli – capitale del Regno delle Due Sicilie, è da sempre un luogo di scambio ed un esempio di tolleranza, un monito che ci rammenta quale possa essere il vero risultato della convivenza tra le differenze: non lo scontro, ma l’arricchimento reciproco e l’evoluzione del genere umano. La Neapolitan contamination, appunto.