Nel lavoro si costruisce la persona e la società

- di: Francesco d'Alfonso
 

«Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo, solidale» è stato il tema della 48ma Settimana Sociale dei cattolici italiani, che si è svolta a Cagliari dal 26 al 29 ottobre 2017. Tra gli obiettivi principali del Comitato scientifico e organizzativo vi era la denuncia delle situazioni di sfruttamento, illegalità, disoccupazione nel nostro Paese, ma anche e soprattutto la costruzione di proposte concrete da presentare alle istituzioni. Ne abbiamo parlato con il presidente del Comitato, monsignor Filippo Santoro, arcivescovo metropolita di Taranto, nonché presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace della Conferenza Episcopale Italiana.



Eccellenza, quale è stato l’aspetto centrale della 48ma Settimana Sociale?
Nel suo messaggio papa Francesco ci ha detto: “La dignità del lavoro è la condizione per creare lavoro buono: bisogna perciò difenderla e promuoverla”. Sono stati sempre presenti dinanzi ai nostri occhi i volti delle persone, di chi non ha lavoro, di chi rischia di perderlo, di chi ha un lavoro precario o non degno. Il lavoro risponde al bisogno della persona, alle sue esigenze fondamentali che sono di pane, di realizzazione, di felicità, di infinito. Per questo obiettivo vale la pena il sudore quotidiano, la fatica e il sacrificio, ma anche il giusto riposo perché il lavoro non si trasformi in idolo. Nel lavoro fatto con un senso, e quindi ben fatto, si costruisce la persona, la famiglia, la società, portando avanti l’opera creatrice di Dio.

Quali sono le più evidenti criticità sulle quali la Chiesa può intervenire?
Innanzitutto quella che riguarda il rapporto giovani e lavoro e quindi la distanza tra sistema educativo e mondo del lavoro; quindi il lavoro delle donne, la cura della casa comune, il lavoro malsano, pericoloso. I nostri esperti ci hanno indicato le cause della disoccupazione, ad esempio, identificando alcuni mali sociali: investimenti senza progettualità, finanza senza responsabilità, tenore di vita senza sobrietà, efficienza tecnica senza coscienza, politica senza società, rendite senza ridistribuzione, richiesta di risultati senza sacrifici.

Nel suo discorso conclusivo lei ha parlato di una “conversione culturale” legata alla riscoperta del senso del lavoro.  In che modo la società contemporanea può cambiare rotta e rinnovarsi?
Cambiare rotta è possibile, se decliniamo adeguatamente i termini di una “conversione culturale” che risponde alle esigenze di un cambiamento d’epoca, come ci dice papa Francesco. Si discute tanto di formazione e competenze, ma occorre superare le false dicotomie che separano invece di tener insieme.  La persona è fatta di più dimensioni (cognitiva, emotiva, manuale, sociale) che vanno stimolate e tutelate, avendo cura di attivare sia il sapere teorico che quello pratico. In una prospettiva di sviluppo sostenibile, l’inclusione è un principio economico. Secondariamente, rimettere al centro il lavoro significa costruire un ambiente favorevole a chi lo crea e a chi lo esercita: un obiettivo che in Italia appare ancora molto lontano.  Infine, solo il lavoro che riconosce la dignità del lavoratore rende sostenibile la competitività e permette di fronteggiare la sfida della digitalizzazione. Per questo, oggi, per fare la quantità di lavoro occorre puntare sulla sua qualità: passare da un’economia della sussistenza a un’economia dell’esistenza. La proposta del Convegno di Cagliari è che la centralità del lavoro diventi il cardine di un’inedita alleanza intergenerazionale, capace di salvare i nostri figli dalla stagnazione e gli anziani da una progressiva perdita di protezione.

Una significativa novità della 48ª Settimana sociale è stata l’indicazione di un metodo nuovo.
Abbiamo fatto davvero una esperienza di lavoro comune: dalla preghiera alla meditazione sapienziale sul valore del lavoro nella Bibbia, dall’ascolto dei drammi alle buone pratiche, dal dialogo critico tra di noi e con le istituzioni alle proposte per il Parlamento ed il Governo dell’Italia e dell’Europa. Un lavoro sinodale, insomma, iniziato ben prima di queste giornate, che ha aperto un cantiere per la Chiesa. Il metodo che abbiamo inaugurato deve diventare lo stile di lavoro delle diocesi.

La 48ª Settimana sociale si è conclusa con sette proposte – quattro per l’Italia e tre per l’Europa – e trenta passi concreti per ridare slancio alla presenza dei cattolici nella società. La chiesa italiana non ha voluto semplicemente celebrare un convegno, ma si è spinta ben oltre, cercando soluzioni e avanzando proposte.
Vogliamo stabilire un dialogo forte con le istituzioni, non vogliamo fare soltanto denuncia. Pensiamo che per ridurre la disoccupazione giovanile non bastino gli incentivi all’assunzione, ma sia necessario rafforzare i corsi di istruzione e di formazione professionale aumentando i finanziamenti dello Stato, portando a regime la sperimentazione del sistema duale tra aziende e centri di formazione professionale, sviluppando il livello terziario non accademico attraverso i sistemi degli Istituti tecnici superiori e delle scuole per le tecnologie applicate. È importante sostenere le piccole e medie imprese attraverso i Piani individuali di risparmio, così come migliorare ulteriormente le regole degli appalti per accelerare il passaggio dalla prassi del massimo ribasso a quella della massima dignità. Abbiamo anche proposto di avviare un percorso di rimodulazione delle aliquote Iva per premiare le filiere sostenibili e così combattere il dumping, la concorrenza sleale in campo sociale ed ambientale. Alle istituzioni europee abbiamo presentato tre proposte: armonizzazione fiscale ed eliminazione dei paradisi fiscali interni all’Unione Europea; accrescere gli investimenti infrastrutturali e investimenti produttivi (anche privati) e adeguare il loro trattamento nelle discipline di bilancio; integrazione nello statuto della BCE del Parlamento dell’occupazione accanto a quello dell’inflazione come riferimenti per le scelte di politica economica.

È possibile, infine, che il mondo cattolico possa tornare ad avere una seria rilevanza pubblica e un fruttuoso impegno politico?
Prima di ogni azione sociale o politica c’è uno spessore ecclesiale da vivere come luogo in cui l’esistenza umana è rigenerata nell’appartenenza al mistero di Cristo e della Chiesa. Di qui sorge la responsabilità della comunità cristiana, e in particolare dei laici, in campo sociale e politico. Il cammino del “dopo Cagliari” deve ripartire da una profonda esperienza del kerygma, sino ad un suo sviluppo nella carità e alla ripresa sistematica della Dottrina sociale della Chiesa. Così questo patrimonio potrà tradursi anche in una nostra responsabilità sociale e politica.

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