I mercati alla prova delle presidenziali Usa

- di: Richard Flax, Chief Investment Officer di Moneyfarm
 

Nonostante manchi ancora oltre un mese alle 60esime elezioni presidenziali della storia degli Stati Uniti, all’indomani del confronto tra Donald Trump e Kamala Harris il possibile esito elettorale è tornato al centro del dibattito pubblico internazionale. Per quanto i tempi non siano ancora maturi e i sondaggi vadano maneggiati con cautela, secondo il sito specializzato FiveThirtyEight, Harris avrebbe il 56% di probabilità di vincere. Tuttavia, non si possono ignorare una serie di incognite: anzitutto, le elezioni coinvolgeranno entrambe le Camere del Congresso, ma non in ogni Stato; inoltre, i democratici hanno una maggioranza molto esigua al Senato e questo aumenterebbe la complessità dello scenario, con possibili ripercussioni sul fronte dei mercati. 

Alcuni analisti hanno notato che, storicamente, l’azionario statunitense tende a performare meglio quando le votazioni confermano il partito già in carica. In ogni caso, al di là di una certa volatilità nel breve periodo, quello che conta di più nel lungo termine è la salute complessiva dell’economia, in particolare il contesto macroeconomico e i livelli di inflazione.

Inoltre, è difficile prevedere quanto il futuro presidente degli Stati Uniti riuscirà ad attuare del proprio programma elettorale, anche perché l’appoggio del Congresso sarà decisivo in questo senso. I mercati, dal canto loro, tendono a non vedere di buon occhio l’eccessiva interferenza del governo, tanto che le azioni Usa storicamente hanno performato meglio (anche se di poco), nei casi di “Congresso diviso”, ovvero quando Camera e Senato hanno colori diversi, situazione che spesso corre il rischio di sfociare in un vero e proprio blocco legislativo. 

I due candidati alla presidenza, intanto, hanno posizioni opposte e inconciliabili su diversi temi di politica economica: se Harris ha parlato di aumentare l’imposta sugli utili delle imprese, Trump ha promesso di ridurla, mossa che sarebbe ben accolta dal mercato, dal momento che aliquote più basse sui profitti dovrebbero teoricamente tradursi in maggiori guadagni per gli investitori. Il rally azionario seguito alla vittoria di Trump nel 2016 è stato in parte determinato proprio dalle attese sui tagli alle imposte sui profitti aziendali. Sul fronte della politica commerciale, tema su cui tradizionalmente la presidenza Usa si è sempre mostrata piuttosto prudente, Trump si è già detto favorevole all’aumento aggressivo dei dazi sui beni stranieri. È facile prevedere come questa linea possa portare ad un’impennata dei prezzi e a un rallentamento della crescita, risultando sgradita agli investitori. Ciononostante, va ricordato che gli Stati Uniti sono un’economia tendenzialmente più chiusa rispetto all’Eurozona e proprio per questo potrebbero essere in grado di resistere meglio all’innalzamento delle barriere commerciali. In una logica di portafoglio, la politica commerciale repubblicana potrebbe tradursi in una sovraesposizione agli asset finanziari statunitensi.

Per quanto riguarda la politica monetaria, spesso i repubblicani hanno sostenuto la necessità di dare al presidente degli Stati Uniti il potere di intervenire sulle decisioni di politica monetaria, limitando così l’indipendenza della Federal Reserve. Ipotesi che, per quanto probabilmente remota, potrebbe rendere nervosi gli investitori. 

Sullo sfondo del dibattito tra i due candidati alla presidenza, restano le preoccupazioni sulla situazione fiscale degli Stati Uniti, che non è positiva e non è attesa migliorare significativamente all’indomani delle elezioni. Repubblicani e democratici potrebbero affrontare la questione in modi diversi: i primi con tagli alle tasse e alla spesa pubblica, i secondi con una nuova stretta fiscale e meccanismi di redistribuzione della ricchezza; ma il deficit potrebbe aumentare ulteriormente, intaccando la fiducia dei mercati finanziari.

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