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Trump, Putin e il fantasma di Zelensky: vertice senza pace

- di: Bruno Coletta
 
Trump, Putin e il fantasma di Zelensky: vertice senza pace
Trump, Putin e Zelensky: vertice di Anchorage senza accordo
Da Anchorage nessun accordo, solo scenografie e promesse di summit futuri. Trump strizza l’occhio a Putin, rinvia le sanzioni e scarica la responsabilità su Kiev.

L’incontro più lungo, ma non il più fruttuoso

Ad Anchorage, in Alaska, Donald Trump e Vladimir Putin hanno firmato la tregua… ma solo con i fotografi. Il summit del 15 agosto 2025, durato oltre tre ore — il più lungo tra i due leader dopo quello di Helsinki del 2018 — si è concluso senza intesa concreta sulla guerra in Ucraina.

Trump, in conferenza stampa, ha parlato di “progressi notevoli” e di “punti già concordati”, ma ha ammesso che su un paio di questioni cruciali restano divergenze. Quali? Non lo ha detto. Solo un accenno a “una grande cosa” che ha impedito l’accordo definitivo. Un mistero utile a mantenere viva la suspense.

Zelensky, il convitato di pietra

Il vero assente era Volodymyr Zelensky. Nessuno l’ha visto, eppure era al centro di ogni frase. Trump ha detto: “Entrambi mi vogliono lì, sia Putin che Zelensky. E io ci sarò.” Il messaggio è chiaro: la regia dei futuri colloqui deve passare da lui.

Ma l’esclusione di Kiev dal tavolo ha suscitato scetticismo immediato. Per molti osservatori è stata una vittoria d’immagine per Putin, accolto dal tappeto rosso in una base americana e proiettato su un palcoscenico globale che legittima la sua presenza. Nelle cancellerie europee serpeggia malumore: per Angela Merkel e Emmanuel Macron ogni trattativa “senza Kiev non può produrre pace”.

Trump ottimista, ma a modo suo

Ottimista sì, ma con formule tipicamente trumpiane. “Voglio smetterla di vedere gente morire in Ucraina”, ha dichiarato al rientro sul suo Air Force One. Poco dopo, lo stesso Trump ha consigliato a Zelensky: “Fai un accordo.” Tradotto: accetta concessioni territoriali, trova garanzie alternative alla Nato, chiudi il dossier prima che lui decida diversamente.

Non a caso, durante un’intervista, il presidente americano ha lasciato trapelare che si è parlato di “scambi di terre” e “più territorio alla Russia” in cambio di promesse di sicurezza. “Sono punti su cui abbiamo negoziato, e su cui in gran parte abbiamo concordato”, ha detto. È la logica del real estate applicata alla geopolitica: dividere, compensare, firmare.

Le ambiguità sulle sanzioni

Trump ha anche gettato acqua sul fuoco delle ritorsioni economiche. “Non è il momento di parlare di sanzioni secondarie contro Mosca, ne riparleremo fra due o tre settimane”, ha spiegato. Una pausa che suona come un regalo a Putin: tempo prezioso senza nuove pressioni. Nel frattempo, nell’amministrazione americana si valuta l’ipotesi di sanzioni mirate a giganti energetici come Rosneft e Lukoil, nel caso il Cremlino non accetti un cessate il fuoco.

Il Cremlino esulta: dialogo positivo, clima amichevole

Dal lato russo, il portavoce Dmitrij Peskov ha descritto i colloqui come “molto positivi”. Putin stesso, lasciando l’Alaska, ha parlato di “un punto iniziale” che potrebbe aprire la strada a rapporti pragmatici con Washington. E ha aggiunto che con Trump “non ci sarebbe stata guerra” in Ucraina.

L’atmosfera tra i due non è sfuggita ai cronisti: Trump ha chiamato Putin per nome, “Vladimir”, durante tutta la conferenza, mentre il leader russo lo ha ricambiato con un informale “Donald”. Segnali di un rapporto personale che stride con la drammaticità del conflitto.

Le reazioni interne: accuse di “teatro”

In patria, la politica americana si è divisa. Chuck Schumer, leader dei democratici al Senato, ha accusato Trump su X: “Ha steso il tappeto rosso a un dittatore. Non è diplomazia, è teatro.” John Bolton, ex consigliere per la sicurezza, ha definito Trump “stanco, non deluso, ma stanco”, lasciando intendere un presidente sovraccarico e poco incisivo.

Sui social la delusione è esplosa. “Bastava una email”, ha ironizzato il giornalista Aaron Rupar, raccogliendo centinaia di migliaia di condivisioni. Altri hanno rincarato: un’emoji avrebbe fatto lo stesso. Il senso diffuso: tanto rumore per nulla.

Lo spettacolo militare e la regia trumpiana

Eppure, a Trump la teatralità non dispiace. All’arrivo di Putin, la base Elmendorf-Richardson è stata sorvolata da un bombardiere stealth B-2 e da quattro caccia F-35. Un gesto interpretato come dimostrazione di forza voluta dal tycoon, già orgoglioso delle missioni dei B-2 in Iran. La scena, con il tappeto rosso e i jet in volo, sembrava più Hollywood che diplomazia.

L’Europa e Kiev: paura di essere scavalcate

Il rischio, per Kiev e per le capitali europee, è quello di venire marginalizzate. Oleksiy Goncharenko, deputato ucraino, ha detto su Telegram: “Putin ha solo guadagnato tempo. Nessun cessate il fuoco, nessuna de-escalation.”

Da Bruxelles filtrano irritazioni: “Non possiamo accettare un accordo deciso sopra la nostra testa”, ha detto un diplomatico europeo. L’impressione è che l’America trumpiana tratti con Mosca come con un socio d’affari, lasciando agli altri la parte dei comprimari.

L’arte dell’attesa

Il vertice di Anchorage non è stato il trampolino verso la pace, ma il trailer di un film che Trump vuole dirigere. La vera partita si giocherà — forse — nel promesso trilaterale con Zelensky.

Nel frattempo, Putin torna a Mosca con l’immagine di statista riconosciuto, Trump con la narrazione di “grande mediatore”, e l’Ucraina resta sospesa tra concessioni e resistenza. È il trionfo del “divide et impera” trumpiano: rinviare le scelte, moltiplicare le scenografie, trasformare la tragedia della guerra in una serie tv diplomatica.

L’Europa, spettatrice inquieta, dovrà decidere se restare in silenzio o reclamare un ruolo. Perché se a scrivere il copione saranno solo Trump e Putin, Zelensky rischia di ridursi a semplice comparsa.

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