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Bolsonaro inizia il carcere, dal golpe fallito alla cella di Brasília

- di: Vittorio Massi
 
Bolsonaro inizia il carcere, dal golpe fallito alla cella di Brasília
Bolsonaro, dal golpe fallito alla cella di Brasília
Dal sogno del potere eterno al carcere di massima sicurezza: così finisce la parabola dell’ex presidente che voleva riscrivere la democrazia brasiliana.
 
(Foto: Bolsonaro quando era presidente del Brasile).

Il cancello della sede della polizia federale di Brasília si chiude alle spalle di Jair Messias Bolsonaro e, con quel rumore metallico, si chiude anche un capitolo della storia politica del Brasile. L’ex capitano, già presidente e punto di riferimento della destra radicale continentale, inizia a scontare una condanna a oltre 27 anni di reclusione per il tentativo di colpo di Stato che avrebbe dovuto impedire l’insediamento di Luiz Inácio Lula da Silva dopo il voto del 2022. Nelle carte dei magistrati e nelle ricostruzioni della polizia federale, emerse tra il 2024 e il 2025, non c’è solo il golpe mancato: c’è un piano di violenza politica ad altissimo rischio, che contemplava perfino l’eliminazione fisica del presidente in carica e del giudice più odiato dal bolsonarismo, Alexandre de Moraes.

Bolsonaro arriva in cella dopo mesi di domiciliari sorvegliati, un braccialetto elettronico danneggiato, accuse di tentata fuga verso un’ambasciata straniera a Brasília e un processo lampo davanti alla Corte Suprema che ha cristallizzato la sua responsabilità nel disegno e nella guida del complotto. L’uomo che per anni ha definito i propri avversari “comunisti” e ha ripetuto che avrebbe lasciato il potere solo “morto, arrestato o vittorioso” vede realizzarsi proprio uno degli scenari che evocava: l’arresto come esito finale di una sfida frontale allo Stato di diritto.

Dalla sfiducia nelle urne al laboratorio del golpe

La storia che porta Bolsonaro in prigione non comincia con il blitz dei suoi sostenitori sugli edifici del potere a Brasília, l’8 gennaio 2023. Per i giudici parte molto prima, quando il presidente in carica inizia a erodere sistematicamente la fiducia nel sistema di voto elettronico, accusando senza prove il tribunale elettorale di preparare brogli e insinuando che la sconfitta sarebbe stata possibile solo per “furto” di voti.

Nelle motivazioni della condanna, rese pubbliche nel settembre 2025, viene ricostruita una campagna di delegittimazione costruita a tavolino: discorsi ufficiali, conferenze stampa, dirette social, riunioni private con ministri civili e vertici militari. L’obiettivo, scrivono i giudici, era duplice: preparare la base sociale a respingere il risultato delle urne e convincere una parte delle Forze armate a sostenere uno strappo costituzionale.

Un momento chiave è una riunione di luglio 2022, documentata in un video poi finito agli atti di un’inchiesta federale. Attorno al tavolo ci sono Bolsonaro e alcuni dei suoi ministri più fedeli, diversi generali e i vertici della sicurezza. In quella stanza vengono discusse bozze di decreti d’emergenza per sospendere il risultato del voto, arrestare giudici e dirigenti elettorali, imporre un “riordino” delle istituzioni. È la prefigurazione di un autogolpe: non un colpo di Stato classico con i carri armati nelle strade, ma un tentativo del presidente uscente di restare al potere piegando la legge al proprio interesse.

Il piano estremo: avvelenare Lula, colpire de Moraes

Quando Lula vince le elezioni e la transizione di potere entra nel vivo, il laboratorio del golpe si sposta dal piano delle ipotesi al terreno operativo. Nelle ricostruzioni della polizia federale e nelle testimonianze confluite nel processo, rese note tra la fine del 2024 e il 2025, emerge un salto di qualità inquietante.

Secondo gli inquirenti, all’interno del gruppo ristretto di consiglieri e ufficiali che lavoravano attorno a Bolsonaro si discute non solo di come bloccare l’insediamento del nuovo presidente ma anche di come neutralizzarlo fisicamente. In alcune conversazioni vengono ipotizzate strategie di avvelenamento di Lula, da mettere in atto durante la campagna o nei giorni di transizione, sfruttando momenti di vulnerabilità negli spostamenti o nelle occasioni pubbliche. In altre compare l’idea di colpire con le armi il giudice Alexandre de Moraes, diventato il simbolo della resistenza delle istituzioni alle pressioni del bolsonarismo.

Nulla di tutto questo arriva a compimento. Non ci sono prove che un commando sia arrivato a un passo dal bersaglio, ma le carte giudiziarie descrivono un clima da “licenza di uccidere”, in cui la violenza politica viene percepita come una delle opzioni sul tavolo. Alcuni ufficiali si tirano indietro, altri si limitano a osservare, una parte continua a spingere. È in questo contesto che maturano gli eventi dell’8 gennaio 2023, quando migliaia di sostenitori di Bolsonaro assaltano il Congresso, il palazzo presidenziale e la Corte Suprema, convinti che l’esercito si sarebbe unito a loro. L’aiuto dei militari non arriva: l’insurrezione viene contenuta, ma la miccia è ormai accesa.

Domiciliari, braccialetto elettronico e il sospetto della fuga

Dopo mesi di indagini, perquisizioni e arresti di collaboratori, il cerchio si chiude attorno all’ex presidente. Nel 2024 e nel 2025 la giustizia brasiliana costruisce un mosaico di prove: chat cifrate, registrazioni, testimonianze, documenti ufficiali che mostrano Bolsonaro non come spettatore ma come regista del tentativo di golpe. La condanna a 27 anni e tre mesi di carcere viene pronunciata dalla Corte Suprema nella seconda metà del 2025, ma in un primo momento gli viene concesso di restare ai domiciliari, sorvegliato da un braccialetto elettronico.

È in questa fase che il copione prende una piega ancora più drammatica. Secondo quanto emerge dagli atti giudiziari, Bolsonaro tenta di manomettere il dispositivo di controllo, danneggiando il braccialetto e provocando un allarme immediato nella centrale che monitora i movimenti degli imputati ad alto rischio. Gli investigatori ricollegano l’episodio a una serie di segnali preoccupanti: contatti con figure della destra radicale, tentativi di mobilitare i sostenitori sotto forma di veglie e manifestazioni, voci insistenti su una possibile corsa verso un’ambasciata straniera a Brasília per chiedere asilo.

Di fronte a questo quadro, il giudice Alexandre de Moraes decide il passo successivo: revoca i domiciliari e ordina la detenzione preventiva in una struttura di massima sicurezza. L’ex presidente prova a difendersi sostenendo di aver agito in preda a un momento di squilibrio psicologico, dovuto – dice – a una combinazione sbagliata di farmaci. In un’udienza, secondo i resoconti, avrebbe insistito: “Non c’è nessun piano di fuga, sono vittima di allucinazioni”. Ma per i magistrati il punto è un altro: un leader condannato per complotto e indicato come ispiratore di un’ondata di violenza politica non può permettersi nemmeno il sospetto di un nuovo strappo alle regole.

Quando la Corte Suprema dichiara definitive le sentenze sul complotto e sugli assalti alle istituzioni, quello che era un arresto cautelare si trasforma nell’inizio effettivo della pena. Bolsonaro viene trasferito nella sede della polizia federale di Brasília, dove gli viene riservata una stanza singola, sotto sorveglianza costante e con accesso limitato ai suoi avvocati e ai medici.

I tre militari simbolo e la resa dei conti con l’élite in uniforme

Insieme all’ex presidente, finiscono dietro le sbarre tre figure di spicco dell’apparato militare e della sicurezza, tutte legate a doppio filo alla stagione del bolsonarismo. Le sentenze contro di loro, lette in aula nei mesi precedenti e rese definitive nelle stesse ore del trasferimento di Bolsonaro in cella, rappresentano un passaggio storico: è la prima volta, nella storia repubblicana del Brasile, che alti ufficiali vengono condannati per aver cospirato contro l’ordine democratico.

Le motivazioni parlano chiaro: parte dei vertici militari non si è limitata a tollerare il clima di tensione, ma ha contribuito a disegnare e perfezionare le strategie per mettere in discussione il risultato elettorale. In alcune intercettazioni, gli inquirenti colgono l’eco di un vecchio linguaggio da guerra fredda: riferimenti all’“avanzata del comunismo”, alla necessità di “salvare la patria”, persino alla possibilità di ripetere lo schema del golpe del 1964, quello che consegnò il paese a due decenni di dittatura.

La condanna dei tre ufficiali, con pene a doppia cifra, manda un segnale alle caserme: l’era dell’ambiguità tra politica e uniforme è finita, almeno sul piano della giurisprudenza. Ai militari viene ricordato che l’intervento politico non è più coperto da un’aura di legittimità patriottica ma definito, nero su bianco, un crimine contro lo Stato democratico di diritto.

La piazza si divide, ma il mito del “mito” si incrina

Mentre Bolsonaro passa dallo status di ex presidente al numero di matricola nel registro dei detenuti, il paese reagisce in modo tutt’altro che uniforme. Nelle città che furono roccaforti del bolsonarismo compaiono cortei e veglie con candele, bandiere verdeoro, striscioni che invocano amnistia e accusano la magistratura di “persecuzione politica”. I social si riempiono di appelli a considerare Bolsonaro un “prigioniero politico”, in un linguaggio che rovescia il vocabolario tradizionale della sinistra.

Ma c’è anche un’altra faccia della piazza. Nei quartieri popolari, nei movimenti che avevano contestato la gestione della pandemia, nelle organizzazioni ambientaliste, la notizia della detenzione viene letta come una forma di risarcimento simbolico. Non solo per il tentato golpe, ma per un’intera stagione di retorica violenta, di aggressioni a giornalisti, di minacce a giudici e parlamentari, di devastazione dell’Amazzonia e negazionismo sanitario durante la fase più acuta del Covid-19.

Colpisce un dato: le mobilitazioni pro-Bolsonaro sono più piccole e meno organizzate rispetto agli anni del suo potere. Il magnetismo del “mito”, come lo chiamavano i sostenitori, appare logorato da inchieste, intercettazioni, condanne, tradimenti incrociati all’interno del suo cerchio magico. Una parte della destra tradizionale guarda già altrove, alla ricerca di un nuovo volto capace di rappresentare un’area conservatrice senza trascinare il paese di nuovo sull’orlo dello scontro istituzionale.

Che cosa resta del bolsonarismo dopo il carcere

L’ingresso di Bolsonaro in carcere non cancella il fenomeno che porta il suo nome. Il bolsonarismo sopravvive come stile politico, linguaggio, comunità digitale, un universo di militanti e simpatizzanti abituati a leggere la politica come una guerra permanente contro un nemico interno. L’esito del processo, però, cambia lo scenario: chi vorrà indossare il testimone della destra radicale dovrà farlo sapendo che la magistratura ha fissato una linea rossa ben visibile sul terreno del rispetto delle istituzioni.

Per la democrazia brasiliana, il caso Bolsonaro è una prova a doppio taglio. Da un lato mostra la capacità delle istituzioni di resistere a un assalto coordinato dal vertice stesso dello Stato, di indagare a ritroso la catena di comando, di condannare non solo gli esecutori materiali ma anche i mandanti. Dall’altro ricorda quanto fragile possa essere il consenso attorno alle regole del gioco, se un presidente eletto può trasformarsi in potenziale golpista nel giro di pochi mesi.

La parabola che porta “o capitão” dalla caserma al Palácio do Planalto e poi alla cella di Brasília è un avvertimento che va oltre i confini del Brasile. In un’epoca in cui leader eletti mettono in discussione il voto che li ha portati al potere quando non li favorisce più, il caso Bolsonaro diventa un laboratorio, nel bene e nel male, di come uno Stato può reagire a chi prova a trasformare la sfiducia nelle urne in un progetto di sovversione.

Oggi il leader che prometteva di salvare il Brasile dalla “vecchia politica” guarda il paese attraverso le sbarre. Non è ancora chiaro se la storia lo archivierà come un incidente di percorso o come un punto di svolta. È chiaro però che, per la prima volta, un ex presidente condannato per complotto golpista paga davvero il prezzo delle sue scelte. E che la democrazia brasiliana, pur scossa, esce da questa vicenda con una lezione impressa nei codici e nella memoria collettiva: chi prova a rovesciare le regole del gioco non può pretendere di restare impunito. 

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