Moda, Area Studi Mediobanca: "Ricavi a doppia cifra nel 2022"

- di: Barbara Leone
 
Non si ferma la corsa del settore moda, che si appresta a chiudere l’anno con una crescita dei ricavi a doppia cifra. E’ quanto emerge del nuovo report sul Sistema Moda Mondo presentato dall’Area Studi Mediobanca. L’indagine analizza i dati finanziari delle 78 maggiori multinazionali della moda con ricavi superiori a un miliardo di euro ciascuna, di cui 35 hanno sede in Europa, 29 in Nord America, 12 in Asia e due in Africa. Dal report si evince che i dati dei primi sei mesi del 2022 hanno segnato per i maggiori player mondiali della moda un incremento del giro d’affari del 15%. Il mercato europeo ha spinto di più (+24%) insieme con quello americano (+19%, trainato dagli Stati Uniti), mentre l’Asia è stata penalizzata dalle restrizioni legate al Covid-19 (+3%). Nonostante l’attuale scenario macroeconomico, per l’intero 2022 le aspettative restano positive: i primi dati, rilasciati in questi giorni, indicano una crescita media del fatturato del 18% (+15% a cambi costanti) nei primi nove mesi 2022.

Moda, Area Studi Mediobanca: "Ricavi a doppia cifra nel 2022"

Le multinazionali della moda sono supportate da fondamentali solidi e stanno incrementando i propri listini (+6% in media previsto nel 2022) in risposta ai rialzi dei costi produttivi (materie prime, mano d’opera e logistica) nonché alle pressioni valutarie. Innovazione e sostenibilità si confermano le principali leve per lo sviluppo del settore e il mercato asiatico resta di primaria importanza, con un’attenzione particolare alle generazioni più giovani e ai consumatori cinesi. Tutti i valori superano i livelli pre-crisi, con l’eccezione degli investimenti Nel 2021 le 78 maggiori multinazionali della moda hanno fatturato complessivamente €497mld (+26,0% sul 2020, superando dell’8,5% i livelli pre-pandemici), di cui il 57% generato dai player europei e il 33% dai nordamericani. Fra i 35 gruppi europei, l’Italia con le sue nove big è il paese più rappresentato a livello numerico, ma è la Francia, con una quota del 40% del fatturato aggregato, ad aggiudicarsi il primato per giro d’affari davanti a Germania (12%) e Regno Unito (11%), con l’Italia al 6%. Al primo posto per ricavi tra i colossi mondiali si conferma LVMH (€64,2mld).

Seguono Nike (€41,2mld), la spagnola Inditex (€27,7mld) che controlla Zara, la tedesca Adidas (€21,2mld), EssilorLuxottica (€19,8mld), la svedese H&M (€19,4mld) e il gruppo svizzero Richemont (€19,1mld). Prima tra gli italiani Prada (€3,4mld), al 33esimo posto in classifica, seguita da Calzedonia Holding (46esima posizione), Moncler (52esima) e Giorgio Armani (54esima). L’incremento dei ricavi nel 2021, rispetto ai livelli pre-pandemici, vede primeggiare la britannica Farfetch (+90,5%) davanti alla statunitense Crocs (+87,9%). Farftech, fondata nel 2007, è anche la società più giovane, seguita dalle connazionali Boohoo (2006) e Asos (2000) e dalla stessa Crocs (1999). Anche la redditività supera i livelli pre-crisi: ebit margin aggregato al 15,8% dal 9,1% del 2020 e 13,1% del 2019. Hermès si conferma al primo posto (ebit margin al 40,1%), davanti a Chanel (35,3%) e LVMH (31,7% al netto della divisione “selective retailing”). Seguono Crocs (29,6%), Kering (28,4%) e Moncler (28,3%), prima italiana in classifica. In rialzo, ma ancora al di sotto dei livelli del 2019, gli investimenti: +20,6% sul 2020 e -5,9% sul 2019. Solo i gruppi asiatici hanno investito con intensità superiore (+22,7% sul 2019), mentre i player europei si fermano al -6,0% e quelli nordamericani arretrano tre volte tanto (-22,6%). Al contrario, gli acquisti di azioni proprie si sono intensificati superando i livelli pre-pandemici (+31,6% sul 2019), con un’accelerazione per i gruppi europei quasi doppia rispetto a quelli nordamericani (51,7% vs 26,8%) cui, però, è attribuibile il 71% degli acquisti complessivi.

La distribuzione di dividendi resta allineata ai livelli pre-crisi, con l’eccezione dei player europei che hanno remunerato gli azionisti in misura lievemente maggiore (+3,3%). Sul fronte patrimoniale, le multinazionali della moda si distinguono per una struttura finanziaria più solida rispetto alla media della grande manifattura (debiti finanziari sul capitale netto al 68,3% vs 88,0%), con i gruppi europei più capitalizzati di quelli statunitensi (59,7% vs 106,9%). La svizzera Swatch e la danese Bestseller sono le più solide (0,9% per entrambe). Sul fronte lavoro il report evidenzia che il 39% della forza lavoro delle 78 multinazionali della moda ha mediamente meno di 30 anni; la maggiore concentrazione di occupati giovani è nelle statunitensi (55%), le europee si fermano al 37% e le italiane si collocano sotto la media continentale (32%). Il ricorso al part-time è più intenso nei gruppi statunitensi (50%) rispetto a quelli europei (22%), con le società italiane che registrano il valore più basso (8%) insieme alle francesi (9%). I player europei utilizzano più contratti a tempo indeterminato (85%) rispetto agli statunitensi (79%). Dall’analisi della varietà di genere nei board emerge che la presenza femminile cala all’aumentare del livello di responsabilità in azienda: la quota di donne sul totale della forza lavoro è mediamente pari al 64%, ma scende al 44% nei ruoli direttivi e al 33% a livello di CdA. I gruppi statunitensi hanno più consiglieri donna (38%) rispetto a quelli europei (33%). Ampiamente sopra la media europea si collocano i player francesi i cui CdA sono composti per la metà da donne; i gruppi tedeschi si fermano al 29% e quelli italiani al 28%. Le meno rappresentate sono le donne giapponesi: solo una ogni dieci consiglieri. Le aziende cinesi fanno invece più ricorso alla forza lavoro femminile: il 76% del totale dipendenti è donna.

La forza lavoro nelle multinazionali della moda è impegnata in massima parte nella rete di vendita e nella logistica (64%) e in misura minore negli uffici amministrativi (19%) e negli stabilimenti (17%). I processi produttivi sono totalmente delegati a fornitori esterni nei gruppi così detti “no-factory” (la cui attività principale consiste nella creazione, design e vendita del prodotto), mentre assumono un ruolo rilevante in quelli prettamente manufatturieri dove un dipendente su tre è addetto alla produzione. Le 78 multinazionali della moda hanno occupato quasi 2,2 milioni di persone nel 2021, in ridimensionamento dell’1,4% sul 2019 (+3,4% per i gruppi europei e -8,1% per quelli statunitensi). Di contro, sono aumentati i dipendenti nel paese di origine della casa madre (+52%) la cui quota sulla forza lavoro complessiva è salita al 38% nel 2021 (dal 31% nel 2019), a conferma delle recenti evidenze di integrazione verticale per rafforzare il controllo sulla filiera di prossimità, aspetto di particolare rilevanza nell’attuale contesto macroeconomico. Relativamente alla supply chain, i fornitori dei maggiori player mondiali della moda sono localizzati per il 62% in Asia, per il 29% in Europa e per il 7% nelle Americhe, con punte di oltre il 90% in Asia per il fast fashion e le calzature sportive. Il ricorso a fornitori asiatici è più marcato per i gruppi nordamericani rispetto a quelli europei (76% vs 44%) che concentrano nel Vecchio Continente oltre la metà dei propri fornitori (52%), seguendo una strategia di prossimità e maggiore qualità.

Infine, un segnale inequivocabile dell’eccellenza del Made in Italy: mediamente oltre un quarto dei fornitori dei gruppi europei della moda ha sede in Italia, con picchi di oltre l’80% nella fascia alta del mercato. Relativamente alla rete distributiva, nel 2021 sono lievemente aumentati i punti vendita a livello globale (+0,7% sul 2020) trainati dall’area asiatica (+4,2%), mentre sono in ridimensionamento quelli in Europa (-1,9%) e Nord America (-1,6%). Dall’analisi dei bilanci di sostenibilità emerge infine la crescente attenzione alle tematiche Esg. Le multinazionali della moda si impegnano con incisività per un futuro più sostenibile e per la salvaguardia dell’ambiente. Mediamente diminuiscono le emissioni di CO2 (da 1.654 tonnellate di CO2 per un milione di fatturato nel 2020 a 1.194 nel 2021; -28%) e i rifiuti prodotti (da 2,9 tonnellate per un milione di fatturato nel 2020 a 2,4 nel 2021; -17%), mentre aumenta il ricorso alle fonti rinnovabili (dal 51,3% nel 2020 al 59,3% nel 2021) e la quota di rifiuti riciclati (dal 67,1% nel 2020 al 70,4% nel 2021). In controtendenza, e unico aspetto critico, l’incremento dei consumi idrici (da 328 m3 di acqua consumata per un milione di fatturato nel 2020 a 346 nel 2021; +5%), essenzialmente per i gruppi statunitensi (+12%) mentre quelli europei li hanno diminuiti (-11%). Nel complesso i player del Vecchio Continente appaiono più sostenibili di quelli a stelle e strisce.
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Italia Informa n° 1 - Gennaio/Febbraio 2024
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