Le leggi importanti - quelle soprattutto che incidono direttamente sulla politica e su come essa venga poi rappresentata quotidianamente, tra Parlamento e Governo - hanno un tratto comune: chi le propugna spera che esse siano condivise.
O, dicendola in altro modo, che alla fine raccolgano una maggioranza che dia il segnale di come il Paese condivida tale legge. È quel che si sta riproponendo, anche in queste ore, intorno alla vexata quaestio del premierato, ovvero della legge, fortemente voluta da Giorgia Meloni, che dovrebbe portare in sé la certezza che i governi eletti democraticamente possano andare avanti per l'intera legislatura sulla base delle premesse elettorali (cioè di maggioranze precostituite e che restano tali in Parlamento, allontanando lo spettro sempre immanente di ribaltoni).
Giorgia Meloni scommette ancora sul premierato, ma la strada è tortuosa
Una buona intenzione che però deve fare i conti non solo con una opposizione che sta usando toni forti, per come comprensibile vista la posta in palio, ma anche con l'opinione pubblica. La stessa che ha praticamente disertato le urne (consentendo a Giorgia Meloni di vincere il jackpot elettorale), ma che, davanti alla prospettiva di una forte revisione del testo della Costituzione, potrebbe ricompattarsi, così come fatto in altre occasioni (vero, Renzi?) in cui il progetto politico fu bocciato dal corpo elettorale, che fece valere l'arma referendaria.
Ad oggi, quindi, appare ben lontano dal diventare realtà l'auspicio di Giorgia Meloni che la legge su poteri e competenze del primo ministro (e quindi, di riflesso, del capo dello Stato) possa ottenere in Parlamento i due terzi dei voti, quindi con il fattivo coinvolgimento di parti dell'attuale opposizione, da dove sono comunque cominciati a partire le prime strizzatine d'occhio.
Ieri, in occasione di un convegno, il presidente del consiglio ha difeso a spada tratta la riforma, anche con parole significative quando ha detto che la legge guarda al domani e non al futuro imminente, visti i tempi della politica, aggiungendo, quindi, che essa non potrà toccare Sergio Mattarella, che finirà il suo mandato presidenziale senza che qualcosa intervenga a restringere le prerogative del Quirinale.
Ma Meloni è stata anche pragmatica, ipotizzando, fin da ora, che sarà il popolo a decidere, direttamente e non attraverso i suoi rappresentanti in parlamento, e che quindi la riforma riguarderà altri. Anche se appare abbastanza chiaro che per ''altri'' intende qualcuno espressione dell'attuale maggioranza, e tutto lascia intendere che sia un pensiero quasi da auto-investitura.
Certo è che Meloni ha dalla sua delle evidenze che, con la rappresentanza del popolo affidata agli eletti, hanno poco a che spartire, se è vero, come ha detto, che solo nell'ultima legislatura sono andati a Palazzo Chigi ''tre premier retti da alleanze non dichiarate, ma anzi contrapposte in campagna elettorale'' e che questo clima di perenne incertezza e con il Parlamento in balia di cambi di casacca indebolisce l'immagine del Paese in campo internazionale.
Dicendosi disponibile a sostanziali interventi sulla legge elettorale, con il ritorno delle preferenze, Giorgia Meloni ha ribadito che nella sua riforma il presidente della repubblica ''resta figura terza di garanzia. È una scelta essere intervenuti in punta di piedi: abbiamo toccato solo 7 articoli, diamo centralità a governo e Parlamento sulla linea politica ma non togliamo poteri al presidente della Repubblica''.
Ma è anche indubbio che, alla luce della riforma che si vuole varare, il ruolo del capo dello Stato appare non completamente depotenziato, ma certo appannato, relegandolo in un ruolo di controllo e con un guinzaglio corto, perché le decisioni importati saranno prese a Palazzo Chigi, riducendolo ad una funzione meramente notarile.