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Se ci fosse luce sarebbe bellissimo

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Se ci fosse luce sarebbe bellissimo

Domenica 16 novembre 2025, al MAXXI L’Aquila, Elena Bellantoni porta in scena Se ci fosse luce sarebbe bellissimo, una performance che usa il museo non come semplice cornice, ma come territorio da percorrere, da abitare, da condividere. Dieci corpi, strumenti elettronici, gesti minimi che tornano a dire qualcosa di essenziale: come ci muoviamo nel mondo, e come potremmo muoverci insieme, se solo ci concedessimo di ascoltare.

Se ci fosse luce sarebbe bellissimo

In un’epoca in cui tutto tende a diventare spettacolo, Bellantoni sceglie una via più fragile e più rara. Dissemina i performer nelle sale come tracce di un gomitolo srotolato, invitando chi guarda a ricostruire un filo, una possibile comunità. L’arte, quando non cerca consensi immediati, ha ancora la forza di suggerire altre forme di convivenza.

L’habitus e ciò che resta invisibile
Il tema dichiarato è l’habitus: non teoria sociologica, ma pratica quotidiana. Quella trama di gesti spontanei che ci definisce più delle parole. Bellantoni li osserva e li porta alla luce attraverso piccole partiture corporee, individuali e collettive. La danza non come virtuosismo, ma come rivelazione; il corpo non come strumento, ma come domanda.

Nel passaggio dalle azioni separate alla forma comune si apre un interrogativo che riguarda non solo gli artisti, ma ciascuno di noi: quali movimenti lasciamo emergere, e quali teniamo nascosti? Cosa raccontiamo quando ci muoviamo senza pensarci, quando non siamo ancora rappresentazione?

Abiti come sculture, figure fuori dal tempo
I costumi, realizzati con Dino Zoli Textile, sono parte integrante del discorso. Lino rosa per il corpo vulnerabile, velluto grigio-azzurro per il lavoro che sostiene, a volte affatica, sempre segna. La forma trapezoidale richiama dervisci, futuristi, Pasolini: riferimenti diversi che però trovano un punto comune nel tentativo di sottrarre i corpi alle identità rigide, di restituirli a un altrove più libero.

Indossati, questi abiti cancellano confini: maschile e femminile si sgrumano, lasciando apparire figure oniriche, quasi sospese. L’arte torna a suggerire ciò che il nostro tempo sembra aver dimenticato: che il corpo non è proprietà privata, ma materia da reinventare.

Una frase che attraversa il tempo

Il titolo riprende l’ultima lettera di Aldo Moro alla moglie. In quelle parole, scritte dalla prigionia quando la fine era certa, c’è un desiderio che ancora ci riguarda: “se ci fosse luce sarebbe bellissimo”. Non un lamento, ma un’ultima fiducia, un’ipotesi di bellezza anche nell’ombra più cupa.

Bellantoni non usa la citazione come ornamento. La rende domanda: quale luce cerchiamo oggi? E dove pensiamo di trovarla, se le nostre vite sembrano sempre più slegate, incapaci di comporre un gesto comune?

Una comunità provvisoria
Accanto all’artista lavorano Francesca Romana Sestili per la coreografia, i danzatori del Gruppo Controchiave e i musicisti Alessio Gabriele e Maria Cristina De Amicis. Ognuno apporta un frammento che non prevale, ma si intreccia. È una compagnia temporanea, come tutte le comunità vere: si costituisce per un bisogno, si scioglie quando il compito è finito, ma lascia tracce.

Per un’ora, il museo diventa un laboratorio di convivenza. Non si chiede allo spettatore di capire, ma di partecipare, di accettare l’incertezza, di camminare tra corpi che non cercano di impressionare ma di condividere un’atmosfera, una fragilità.

Una lezione necessaria
In tempi in cui l’arte rischia di diventare un’altra forma di consumo, Se ci fosse luce sarebbe bellissimo ricorda che la scena può ancora essere un luogo di responsabilità. Non c’è denuncia gridata, non c’è retorica: solo una serie di gesti che insistono, con ostinazione pacata, sull’idea che la luce non nasce dalla spettacolarità, ma dalla vicinanza.

Bellantoni e i suoi collaboratori ci dicono che la bellezza non è un ornamento: è un lavoro quotidiano, un esercizio di attenzione. Forse la performance non risolve nulla; forse non vuole farlo. Ma offre per un momento l’ipotesi che, se ci fosse davvero più luce nei nostri modi di stare insieme, sarebbe — sì — bellissimo.

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