Dopo le amministrative, per Lega e Cinque Stelle è il momento dell'autodafé
- di: Redazione
I politologi - e, per fortuna di chi ha la pazienza di leggerci, non lo siamo - dovrebbero interrogarsi sui motivi veri per i quali due dei partiti che sino a pochi mesi fa raccoglievano, insieme, ben più della metà dei voti degli italiani siano usciti a pezzi dalle amministrative, ponendo ai loro vertici l'obbligo, anche per rispetto di chi ancora li sostiene, di fare una analisi vera delle cause della debacle e non di semplice facciata. Una analisi che sia un esame di coscienza, ma soprattutto spietata, non nascondendosi dietro le solite frasi scontate, tipo ''uniti si vince'', tanto cara a Matteo Salvini
Anche perché è sorprendente dovere prendere atto che, sino a ''due governi fa'', Lega e Cinque Stelle, insieme al governo guidato da Giuseppe Conte, hanno dilapidato una dote di voti che si sono liquefatti, persi probabilmente per sempre.
Le amministrative certificano il momento difficile per Lega e Movimento Cinque Stelle
È stato, insomma, certificato il fallimento di due progetti politici in parte simili nelle finalità, in parte sconfitti dalla medesima arroganza di chi ha cercato di volare troppo vicino al sole e quindi, novello Icaro, è precipitato rumorosamente.
Per assurdo che possa apparire, le due sconfitte, sebbene durissime allo stesso modo, sono diverse perché quella che ha subito la Lega è anche la fine di quel progetto di partito nazionale che, se avesse avuto successo, avrebbe reso il partito di Salvini sin troppo egemonico rispetto al centrodestra. Ora, invece, che sono colate a picco le ambizioni di esportare il modello leghista ovunque, spacciandolo come adattabile alle più diverse realtà sul territorio, Matteo Salvini dovrà scegliere se continuare a perseguirlo, con tutti i rischi di rendere ancora più pesante la situazione, oppure prendere atto del fallimento, che sarebbe però assolutamente ascrivibile solo a lui.
Quello che sembra emergere dentro il partito nei confronti di Salvini è una sorta di presa di distanza che, però, è stato lo stesso ''capitano'' a determinare nel momento in cui ha agito e si è comportato come se la Lega fosse lui e nessun altro. Ma, anche per stomaci adusi ai partiti a guida unica e intoccabile (almeno sino a quando anche gli dei cadono), le decisioni di Salvini sono apparse poco condivisibili, quando non addirittura subite. Come nel caso di incursioni nella politica internazionali che gli sono, culturalmente, aliene.
La Lega di governo è stata tale sino a quando Salvini ha capito che stare dentro una maggioranza significa sottostare ad una disciplina di coalizione. Una condizione che ha saputo capitalizzare in termini di consenso, ma che ha bruciato quando, sentendosi lui il vero capo del centrodestra, non ha lanciato i suoi ultimatum, miseramente falliti. L'ambizione del partito nazionale esce quindi irrimediabilmente sconfitta, così come il sogno di raccattare i voti necessari a respingere la golden share di Giorgia Meloni sul centrodestra. Anche se alla leader di Fratelli d'Italia manca ancora un pizzico di prestigio personale, necessario per incunearsi tra Salvini e Berlusconi e quindi convincere il ''padrone'' di Forza Italia di fidarsi di lei e non di altri. Capire poi perché Salvini si sia infilato nell'assurda avventura referendaria è cosa che attiene non tanto a chi si occupa di politica, quanto ai cultori della strategia militare, che inorridirebbero vedendo che, come la Lega, un esercito in difficoltà e senza approvvigionamenti logistici si lanci all'attacco di mura solidissime impugnando spade di stagnola.
Il referendum è già strumento difficile da domare. Ma, se a sostenerlo è un partito che con la Giustizia non è che vada di grande armonia, è sembrato quasi una vendetta che non il reale tentativo di riformare il sistema. In questo Salvini s'è trovato ancora accanto Berlusconi che non vedeva l'ora di ritirare fuori i suoi cavalli di battaglia. Però il tempo in cui parlare di giustizia ad orologeria faceva qualche effetto sembra essere passato e tirare fuori gli arresti fatti poco prima delle elezioni sembra quasi volere approntare una difesa d'ufficio che nessuno ha chiesto a Berlusconi.
Restando nel campo dello psicodramma, anche Giuseppe Conte qualche domandina se la deve porre. I Cinque Stelle, la vera novità politica degli ultimi dieci-quindi anni, sono ormai un ''non partito'', che paga per intero lo scotto di essere stato pensato come soddisfacimento della enorme ambizione del suo fondatore, che però, come un architetto pazzo, ha costruito un grattacielo senza posare le fondamenta della sua creatura. Oggi, quindi, i Cinque Stelle assistono alla loro dissoluzione, ostaggi dell'indecisione del loro leader (sempre che l'ennesima ordinanza napoletana non lo disarcioni) ancora oscillante tra un'alleanza a sinistra e una corsa in solitario, per soddisfare la spinta che viene dall'esterno da tribuni o presunti tali che, tra dirette video e interviste imbarazzanti, inseguono il sogno di un partito capace di governare da solo.
Ogni ambizione è legittima, ma qui è cosa diversa, perché il progetto politico dei grillini non esiste più e non per colpe esterne. Raccattare percentuali bassissime nelle pochissime città dove erano presenti con proprie liste non è solo la sconfitta di Giuseppe Conte - capo pro tempore del partito, ma soprattutto di una concezione contraddittoria della politica, quella che li ha fatti passare da ''uno vale uno'' a ''io sono io e voi...''.