Alla base della tragica serie di incidenti sul lavoro che sta funestando l’Italia da nord a sud in questo 2018 c’è un combinato disposto micidiale: da una parte la tendenza a considerare la questione occupazionale esclusivamente sotto il profilo quantitativo, numerico; dall’altra lo svilimento degli strumenti ispettivi, che hanno drammaticamente visto ridimensionata la propria funzione deterrente. La crisi decennale che ha investito il nostro Paese ha provocato una distorsione pericolosissima nell’approccio all’analisi del mercato del lavoro: la corsa al miglioramento degli indici occupazionali ha portato a legittimare molteplici forme di precariato, a tollerare il sistematico ricorso al subappalto, a bruciare tempi e modi per un’adeguata formazione, a istituzionalizzare il massimo ribasso come parametro imprescindibile di qualsiasi gara tra privati. Tutto questo, va sottolineato, senza dimenticare il poderoso apparato dell’economia sommersa, che secondo l’Istat impiega poco meno di quattro milioni di lavoratori, ovviamente senza tutele ed esposti quotidianamente a rischi altissimi.
Chi non vuole rispettare le regole, va sottolineato con forza, ha potuto osservare una netta contrazione del numero delle ispezioni, strumento fondamentale per spingere le imprese a dotarsi di procedure e sistemi di sicurezza: in cinque anni si sono ridotte di oltre un terzo, complici l’inadeguatezza del numero degli addetti, la mancanza di risorse a loro disposizione e l’eccessiva burocratizzazione derivante dall’accorpamento di competenze seguito alla creazione dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Non essendo stato predisposto un piano finanziario ad hoc, il nuovo Ente, nato un anno e mezzo fa per armonizzare le attività di tutti i soggetti incaricati delle azioni di controllo, ha finito per drenare risorse destinate ad esempio all’Inps e all’Inail, pregiudicandone l’operatività. Molte sigle sindacali hanno più volte denunciato una progressiva contrazione sia del numero degli addetti alle verifiche sul fronte della sicurezza sia della quantità di ispezioni effettuate. L’agenzia unica nazionale, tra l’altro, sconta anche un sistema molto meno collaudato rispetto a quello dei soggetti che ad essa fanno capo e ha contribuito a un appesantimento delle procedure, laddove è di tutta evidenza la necessità di agire tempestivamente: ritardare anche di un solo giorno un’ispezione o eliminare le seconde verifiche a breve distanza dalla prima può voler dire non riuscire ad evitare un infortunio o, peggio ancora, la morte di un lavoratore.
Abbiamo una legislazione di alto profilo sul fronte della sicurezza, ma senza adeguati strumenti operativi e uno scatto culturale non si riusciranno ad ottenere risultati significativi nel breve-medio periodo. Ci siamo ormai assuefatti a contare le vittime e a snocciolare dati senza coglierne la drammaticità: in Italia si verificano almeno 1.000 morti all’anno, con un tasso spaventoso di 2,6 decessi ogni 100.000 lavoratori. Certo, da noi si contano giustamente anche i decessi e gli infortuni in itinere, cosa che in altri Paesi europei non accade, ma la severità del dato rimane. Non c’è dubbio che la chiave sia lavorare sulla prevenzione: aziende pubbliche e private, liberi professionisti, realtà di piccole o grandi dimensioni devono imparare a trattare il tema della sicurezza con l’attenzione e la dedizione solitamente riservate a tutti gli altri processi produttivi. Un salto di qualità che va chiesto parimenti ai datori di lavoro, ai dipendenti e anche a ciascun privato cittadino, che nell’affidare un incarico o nello scegliere un’azienda non deve pensare solo al risparmio, ma indirizzarsi verso coloro che rispettano le regole e operano in totale sicurezza.
Come non accennare, poi, al tema della sicurezza connesso al lavoro minorile, anche prendendo spunto dall’ultima Giornata Internazionale della Sicurezza che è stata dedicata proprio alla tutela dei giovani lavoratori: ogni anno in Italia più di 50.000 denunce di infortunio riguardano soggetti di età inferiore ai 15 anni. Un dato che emerge in tutta la sua drammaticità dalle statistiche di settore e che ovviamente non tiene conto di quanto accade nell’economia sommersa, dove lo sfruttamento minorile è spesso la regola e non l’eccezione. Ci si concentra troppo poco o per niente sulla qualità di vita dei circa 350.000 giovanissimi che nel nostro Paese vengono per lo più impiegati in piccole imprese familiari dell’artigianato e dell’agricoltura, dei rischi ai quali sono quotidianamente esposti a causa della scarsa esperienza, di una formazione spesso inesistente, di condizioni di sicurezza approssimative, della totale mancanza di tutele sindacali.
Per imprenditori senza scrupoli può essere forte la tentazione di ricorrere a ragazzi ancora in età da scuola dell’obbligo per ridurre i costi della produzione; così come tante famiglie possono intravedere in un ingresso anticipato del proprio figlio nel mondo del lavoro un modo per arginare congiunture finanziarie particolarmente delicate. Tendenze che vanno monitorate con grande attenzione e represse con decisione, accompagnando il tutto con un’educazione alle buone pratiche della sicurezza sul lavoro che deve proprio iniziare fin da giovani. Un impegno fondamentale per poter sperare in un reale cambio di passo culturale rispetto ai fenomeni infortunistici e per ridare centralità alla questione della tutela dei lavoratori: al di là di qualsiasi indicatore macroeconomico, l’obiettivo deve essere sempre e comunque non un lavoro purchessia, ma un lavoro svolto quanto più possibile in sicurezza.