Stefano Genovese: "Il Pnrr occasione per dimostrare che l'Italia ha energie per ripartire"

- di: Redazione
 
Stefano Genovese non è ‘’solo’’ il responsabile delle Relazioni Istituzionali del Gruppo Unipol, ma anche un avvocato ed un profondo conoscitore delle dinamiche della comunicazione, anche in virtù delle esperienze acquisite in precedenti incarichi. Quindi un osservatore privilegiato di come la comunicazione sia andata evolvendosi nel tempo, anche alla luce dei mutamenti della società e dell’ingresso in scena di nuove forme di interazione, come i social. Di questo Genovese ha accettato di parlare con Italia Informa.

Dottor Genovese, il tema cruciale oggi è rappresentato dalla ripartenza post-pandemia. Come vede la situazione, quali sono i nodi da sciogliere, quali le funzioni abilitanti della ripresa a cui prestare maggiore attenzione?
Da uno sguardo generale è possibile osservare che alcune economie nel mondo stanno uscendo più rapidamente dalla crisi mentre altre rischiano di rimanerci per molto. Gli spazi di mercato si ricomporranno secondo equilibri diversi dai precedenti, in base alla velocità e alla qualità della reazione dei vari Stati. Come europei e, soprattutto, come italiani, dobbiamo tornare rapidamente ad essere noi stessi, dispiegando la nostra creatività, operosità e imprenditorialità. La stagione dei ristori e dei sussidi, se è stata necessaria per l’emergenza, non può trasformarsi nella normalità o, peggio, in una mentalità. Nel breve la risposta è legata alla vaccinazione. Il Piano di ripresa e resilienza, poi, ci darà l’occasione di dimostrare che sappiamo ricostruire, come nel Dopoguerra, con slancio collettivo e gusto per la crescita e per il futuro. E’ quello che stiamo già vedendo accadere nell’organizzazione del piano vaccinale, cui va riconosciuto un cambio di passo grazie all’attivazione di una rete fatta di “eccellenze” nella logistica, come l’Esercito e la Protezione Civile.

Ribilanciare le politiche sociali è la strada da percorrere ed è un fattore qualificante per la coesione europea? Come dovrebbe avvenire questo ribilanciamento?

È quanto emerge dagli studi del Think tank di Welfare Italia, un laboratorio sulle politiche sociali che Unipol ha promosso nel 2010, e oggi supportato dal contributo scientifico dello studio Ambrosetti. Anche prima della pandemia il sistema di welfare italiano era caratterizzato da squilibri: un’incidenza del 58% sulla spesa pubblica, prevalentemente sulla componente previdenziale. E uno sbilanciamento demografico che fa dell’Italia il Paese con più over-65enni e il più basso tasso di natalità. E poi c’è la disparità territoriale nelle prestazioni e nei servizi offerti dalle Regioni, con uno “spread” di quasi 30 punti, rilevato dal Welfare Italia Index, tra la Regione più efficiente e l’ultima.

E in termini europei cosa c’è da fare?
La pandemia ha evidenziato i limiti storici della “casa comune europea”, che si è fatta trovare priva delle leve per gestire l’emergenza in modo coordinato, pianificato e stringente verso sistemi sanitari nazionali che hanno reagito in ordine sparso. Ma subito dopo ha mostrato anche il vero potenziale prospettico dell’Unione: la risposta avuta con il piano Next Generation UE, la capacità di mutualizzare i costi delle emergenze nazionali hanno tracciato la via per un’Unione che si occupi in futuro dei grandi temi sociali: sanità, istruzione, lavoro, pensioni, fisco. Un Welfare New Deal europeo può rappresentare una prospettiva politica su cui fondare le ragioni dello stare assieme contrastando la retorica di chi imputa all’Europa di eludere i grandi temi.

L’ingresso dei social nelle dinamiche quotidiane ha aumentato la circolazione delle fake news. Quindi, una maggiore massa di notizie che circolano, ma con un alto rischio di manipolazione della verità. Come contrastare questo fenomeno?
La lotta contro le fake news, che sono sempre esistite, è impossibile senza risalire all’”emittente” su cui ognuno può esercitare il senso critico. Serve certificare l’identità di chi scrive e commenta sui social, attraverso l’equivalente dei documenti di identità che sono alla base della responsabilità delle nostre condotte. E poi bisogna accrescere il senso critico degli individui, ma questo attiene all’educazione e all’istruzione. Sono perplesso circa l’efficacia dei controlli etici introdotti dalle piattaforme: fact checking, censure, rimozioni. Pongono il tema etico delle priorità negli interessi da tutelare, dei criteri di valutazione e della loro trasparenza. La risposta è nell’accountability: responsabilizzare individualmente e perseguire sulla base delle leggi vigenti sia chi produce contenuti che le piattaforme che li ospitano. Ma c’è ancora molto da fare, anche sul piano del diritto.

Curare le relazioni istituzionali significa fare anche attività di lobbying. Cosa normale nel mondo anglosassone, mentre da noi il lobbista è assimilato al ‘facilitatore’, che condiziona in modo non sempre trasparente le scelte della politica e delle Istituzioni. Che cosa significa in concreto fare lobby e nello specifico cosa significa farlo in Italia?
In Italia il pregiudizio negativo riguarda soprattutto chi svolge attività di lobbying nell’interesse delle imprese, specie se di grandi dimensioni, mentre questo vale meno per chi fa lobby per conto di altre categorie. Credo che in Italia questo dipenda da un certo pregiudizio anti imprenditoriale di fondo, molto meno presente nella cultura anglosassone. L’attività di lobby consiste nel rappresentare interessi particolari presso i decisori nelle Istituzioni pubbliche, specie quando questi ultimi, con piena discrezionalità, intervengono sulle regole che disciplinano il mercato. Il lavoro dei lobbisti consiste nel portare un contributo di conoscenza su quel mercato che, assieme al punto di vista di altri stakeholder, aiuti il decisore a fare scelte consapevoli. Per questo è necessario che il lobbista sia conscio degli obiettivi della propria azienda e aggiornato sul monitoraggio legislativo, sul profilo dei decisori, le loro iniziative, l’attualità politica. È un mestiere di metodo, prima che di relazione. Certo, poi le relazioni contano, purché vi sia qualità nel confronto.

Si dice spesso che oggi, in termini di comunicazione aziendale, al centro non ci sono più le aziende ma il pubblico e i brand vengono scelti, non scelgono. In questo contesto come, a suo parere, si costruisce e si consolida un brand aziendale?

La reputazione è sempre stata alla base della costruzione di un brand. Per gli imprenditori che hanno fatto grande l’Italia era frutto del fiuto del capitano d’azienda. Oggi si costruisce su più livelli, a seconda dei vari stakeholder: comunità finanziaria, Istituzioni, società civile, dipendenti, clienti. Con l’avvento dei social su Internet i consumatori non basano più la loro percezione solo sulla propria esperienza, ma su tutte le altre esperienze, altrettanto individuali ancorché di massa, che sono in rete. Arrivata in Italia oltre vent’anni fa, la Corporate Social Responsibility ha portato le aziende a riflettere sul loro contributo alla società civile, sviluppando sistemi di rendicontazione basati su indicatori “sociali” aggregati, che oggi sono divenuti standard riconosciuti e spesso anche obbligatori. La prossima sfida è implementare sistemi che inquadrino con più precisione la persona, quasi una Corporate Individual Responsibility, per entrare meglio nella relazione con gli stakeholder di un’azienda moderna, confrontandosi con le loro aspettative, valori, culture.

Una responsabilità come la sua assorbe davvero molto in termini di tempo e di coinvolgimento mentale. Come si ritempra nel tempo libero? E che cosa legge più volentieri?

Cerco di stare il più possibile assieme alla mia famiglia, in particolare a mia figlia: ha quasi quattro anni ed è in piena esplosione di quel pensiero visionario proprio dei bambini, che si rivela una favolosa palestra di pensiero laterale per noi adulti. Il tempo libero che resta lo dedico al mare: la mia dimensione e fonte di ispirazione. Quanto alle letture, nel tempo libero preferisco la narrativa alla saggistica. MI piace chi riesce a scandagliare l’animo umano, del resto la curiosità per l’altro è un’attitudine quasi necessaria per chi fa questo lavoro. Senza contare che certi romanzi possono rivelarsi strumenti professionali, più di tanti manuali. Un bel libro del regista Paolo Sorrentino si intitolava “Hanno tutti ragione”. Il protagonista, pieno di vizi e difetti, trabocca di vitalità ed empatia per il prossimo. Ecco, comprendere e accettare intimamente che hanno tutti le loro ragioni è il primo passo per imparare ad affermare le proprie.
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