Haber

- di: Claudia Loizzi
 

“Il Padre” debutta nel settembre del 2012 al Hébertot Theatre di Parigi, riscuotendo molto successo. Premiato come migliore spettacolo al prestigioso Prix Molières nel 2014, successivamente è in scena anche a Londra e poi Broadway. Ora in scena all’Ambra Jovinelli di Roma fino al 19 novembre.

Una pièce di grande emozione, che cosa le piace di questo testo?
“E’ per me fondamentale che il testo abbia un senso a posteriori, che faccia riflettere ed emozionare il pubblico. In una tournee di uno, due o tre anni è importante un testo che lasci il segno nel pubblico, nelle sue discussioni e riflessioni, che abbia un peso poetico e letterario e che non sia vacuo.
“Il padre” è di Florian Zeller, un autore francese giovanissimo, 37 anni, che lo ha scritto quando ne aveva 32. Riuscendo a trattare un argomento etico e delicato: un uomo, Andrea, che ha i primi sintomi di una malattia, l’Alzheimer. Un problema molto sentito, 600 mila malati solo in Italia.
L’idea geniale è che è riuscito a mettere il pubblico nella testa di Andrea.  Pubblico con il quale condivide le stesse ansie, paure, vuoti e quello stesso senso di spaesamento. E questo fa la forza della scrittura. Occorre comunicare il testo che si è scelto e, a sottolineare il graduale svuotamento della mente di Andrea, interviene anche la scenografia: nell’appartamento in cui si svolge la vicenda a poco a poco svaniscono tutti i mobili: la “casa dolce casa” della scena iniziale si trasformerà pezzo per volta nell’asettica cameretta di un ricovero.

Chi è Andrea?
Un uomo che perde progressivamente il suo passato, il presente e il futuro, e in questo vuoto affiora quello che è stato. In un momento è aggressivo e cinico e subito dopo diventa come un bambino, con sbalzi di temperature, come una sorta di Dr. Jekyll and Mr. Hyde. Un uomo che sembra vagare sul niente, ha soltanto brevi percezioni della realtà che diventa sempre più confusa in cui vengono rappresentate scene “reali” e scene “ immaginate o “deformate” da Andrea. E’ sicuramente doloroso per lui ma anche per quelli che gli sono accanto: Lucrezia Lante della Rovere interpreta la figlia, Anna, impreparata a questa malattia che si sente smarrita dal momento che non è più riconosciuta dal padre, un uomo che lentamente si spegne fino alla fine.

Che difficoltà ha incontrato nell’interpretazione di questo ruolo?
Ho cercato di pensare come lui, immedesimandomi nelle sue percezioni della realtà in quello stato. Per certi ruoli ci vuole talento, intuizione e capacità di assumere altri mondi come farebbe un pittore che di fronte alla sua tela crede che quelli siano i colori giusti e li usa. Così ho fatto anche io nella mia interpretazione ed è sempre molto impegnativo cercare di dare verità a quello che si sta facendo. Il fatto di aver convinto veri dottori e badanti che si occupano di pazienti affetti da Alzheimer, ne è stata un’ulteriore conferma. Oltre al testo importante, anche la regia affidata a Piero Maccarinelli è molto bella e ha scelto di non cedere troppo al dramma, a tratti alcune scene sono anche comiche, lievemente comiche, lasciando spazio all’ironia e ad un sorriso amaro.
Lo spettacolo piace talmente che faremo una bella tournee in tutta Italia.

A proposito, cosa le piace della tournée, ancora dopo tutti questi anni? Lei che è stato l’interprete della più bella canzone dedicata al teatro “La valigia dell’attore”?
Tournée per me significa rivisitare i luoghi del passato, il riprendermi ciò che ho seminato, ritornare in luoghi noti, come i teatri dove sono già stato, negli stessi camerini e a volte anche negli stessi alberghi. ( … “Che il nostro nome ce l’hanno già. E ormai nemmeno ci chiedono più Il documento d’identità” N.d.r).
Un ritrovarmi, un ritrovare amicizie, incontri, vivermi la tournée anche attraverso il territorio, gli odori, i sapori e le persone. Per alcuni potrebbe essere faticoso, ma io anche nella tournée ritrovo la voglia e la passione dell’attore, della recitazione. Tutto diventa un rito, quando sono sul palco mi dimentico del resto e cerco di dare il massimo anche quando si tratta di piccoli teatri o di piccole città.

E suoi punti di riferimento professionali ?
I miei punti di riferimento sono stati da Gian Maria Volontè a Valli e De Lullo (della compagnia dei giovani) e ancora Giancarlo Sbragia, Carmelo Bene, come anche Gassman, Proietti, Mastroianni, Tognazzi, ognuno con un suo metodo, una sua specificità.

Oggi i giovani attori guardano a lei come punto di riferimento?
Oggi ci sono moltissimi attori di grande qualità. Forse sono un punto di riferimento perché i giovani avvertono in me questa mia passione per la recitazione che mi divora, un amore che definirei insano, non c’è nulla che mi piaccia di più, non potrei fare diversamente.

Tra i ruoli da lei interpretati qual è quello al quale è più legato?
Ci sono ruoli che son stati più complessi da mettere in scena e forse tra quelli più impegnativi e toccanti oltre all’attuale, è stato quello di Freud ne “Il Visitatore”. Un intenso dramma, nella Vienna occupata dai nazisti nel 1938, che affronta temi universali: il significato dell’esistenza, la solitudine dell’infanzia come dell’età adulta, il bene e il male, il libero arbitrio.  Interpreto un Freud alla fine della vita, vecchio e malato. Mentre attende con ansia le notizie della figlia Anna, portata via da un ufficiale della Gestapo, riceve la visita inaspettata di uno sconosciuto che piano piano si rivelerà essere Dio (interpretato da Alessio Boni), quel Dio di cui ha sempre negato l’esistenza.  Ma le sue certezze vanno man mano sgretolandosi. Molto toccante è stato per me il momento in cui Freud e Dio, si incontrano in un abbraccio che possa sostenere entrambi e confortarli nella loro comune solitudine e sofferenza. E’ un ruolo in cui mi son sentito davvero molto coinvolto emotivamente e questa stessa sensazione è stata avvertita anche dal pubblico.

Parlando del “Padre” che rapporto ha avuto con il suo? E con la paternità in generale?
Ho avuto una famiglia fantastica, mio padre originario del regno Austro-Ungarico, rumeno ed ebreo, mia madre una contadina bolognese, quando si sono conosciuti si sono incontrati due mondi diversi, ma nonostante questo si sono amati moltissimo. Mia madre più espansiva, parlava con me più apertamente, mio padre più taciturno, severo, leggeva molto, e si teneva tutto dentro. Mi ricordo un momento di lui, più anziano, in cui ci siamo abbracciati e guardati senza dirci nulla. Ma sapevo che ci teneva a me, questo figlio, uno strano animale in cerca della sua strada, da giovane avrebbe voluto tanto aiutarmi, ma non sapeva bene come. In ogni caso mi è sempre stato vicino. E’ venuto a mancare troppo presto nel ‘93, e anche se già si era tranquillizzato perché avevo già fatto tante belle cose, mi dispiace che non abbia visto quanto ho fatto ultimamente. Sì, devo dire sono stato molto fortunato, mi sono sentito protetto.
Io come padre sono sui generis, sono più un personaggio che interpreta il padre, e mia figlia, forse perché anche la madre è attrice, non si sente di calcare le mie orme, del resto è giusto che faccia quello che desideri. Lo ringrazio gentilmente e mi congedo.  Anche se non sono riuscita a vedere tutti i suoi spettacoli, questa è una nuova piccola perla preziosa da raccogliere e conservare gelosamente tra le belle emozioni.

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