Fred, ucciso a calci e pugni, non era un clochard, era Aqualung, la nostra coscienza

- di: Bianca Balvani
 
Non leggevo la definizione di ''clochard'' per un senza dimora da anni e, bazzicando i cinema e le rassegne di film (soprattutto di quelli che oggi sono colpevolmente dimenticati, ma questo è un mio giudizio), ricordo che se ne faceva uso frequente molti anni fa, quando questa figura era ammantata di un certo mistero, misto ad un aura di romanticismo, quando si pensava che chi decideva di vivere senza un tetto lo faceva come forma di ribellione alla società. Come l' ''Archimede le clochard'', interpretato da un Jean Gabin spettacolare, che aveva scelto di dormire per strada, ma non disdegnando le comodità e il senso di sicurezza di una cella di carcere, che diventava il suo rifugio quando c'era troppo freddo o troppa fame.
Fred, il ghanese massacrato nel Napoletano a calci e pugni da due ragazzotti in cerca forse di emozioni (che non avevano alcuna motivazione per l'aggressione) non era un clochard per scelta, vivendo la sua vita di stenti, dormendo al riparo da tutto - pioggia e freddo -, meno che dalla bestialità umana.

Fred, ucciso a calci e pugni, non era un clochard, era Aqualung, la nostra coscienza

Lui, Frederick Akwasi Adofo, aveva 43 anni, era in Italia da una decina, un Paese che forse non aveva scelto, ma che era stato il solo che, anche non tendendogli la mano, almeno non l'aveva scacciato, come fanno altri, che pure si riempiono la bocca di parole, come solidarietà e accoglienza, che per primi non elargiscono.
Fred, come lo chiamavano, non dava fastidio a nessuno, come si dice sempre quando un immigrato irregolare finisce in vicende del genere.
Ma per Fred è la verità, accontentandosi di pochi centesimi che gli regalavano le persone che aiutava a portare il carrello della spesa dall'uscita del supermercato all'auto. In fondo quelle monetine gli bastavano, anche perché nessuno gli dava fastidio o gli faceva pesare la sua condizione. Tendeva la mano e basta, ritraendola quando qualcuno gli faceva cadere dentro delle monete o lo scacciava.
Chi lo ha aggredito, massacrandolo a mani nude, non ha ucciso solo Fred, ma la coscienza di una città (Pomigliano d'Arco, ma poteva essere un'altra, perché la crudeltà non ha una connotazione geografica) e di un Paese, perché l'Italia non può essere questa.

Fred, forse, era come l'Aqualung che Ian Anderson fece protagonista di uno dei brani più iconici dei Jethro Tull, un emarginato che guarda tutti con occhi che per la gente sono pieni di risentimento e che invece sono lo scudo messo a protezione di un animo gentile, troppo per resistere in strada, nel freddo della Gran Bretagna, avvoltolato in un cappotto sdrucito. Oggi tutti dicono che Fred era buono, una brava persona, gentile e che non importunava nessuno. Ma questo evidentemente non è bastato a salvargli la vita.
Non sappiamo quale sarà la sorte dei due ragazzi che hanno ucciso Fred, che fine faranno, se magari si sono resi conto di quel che hanno fatto e se ne daranno una spiegazione. Quel che è chiaro è che questa violenza che quasi quotidianamente fa capolino nelle cronache del nostro Paese non può essere inserita, in automatico, nella casella del ''sono ragazzi'', perché questi due assassini - chiamiamoli con il loro nome -, pur se colpevoli, devono essere accompagnati in un cammino di recupero o, meglio, di redenzione. Certo, pagano anche colpe non loro, perché è improbabile che le loro famiglie non si fossero avvedute del meccanismo ad orologeria che aspettava solo un pretesto per fare scattare la scintilla e quindi l'esplosione.

Ma lo Stato - noi - non può limitarsi a punire, se non è riuscito a prevenire. Sarebbe forse necessario una presa di responsabilità comune, un lavacro che scacci l'ignoranza, da cui uscire migliori e più forti.
Nessuno sentirà la mancanza di Fred che, come l'universo degli invisibili che vivono ai margini delle città, veniva dal nulla, che è tornato ad inghiottirlo mentre noi guardavamo altrove.
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Italia Informa n° 1 - Gennaio/Febbraio 2024
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