Flat tax, l'uguaglianza che divide

- di: Massimiliano Lombardo
 
Sosteneva Luigi Einaudi, economista liberale, ex governatore della Banca d’Italia e Presidente della Repubblica tra il 1948 e il 1955, a proposito delle tasse: “I contribuenti combattono una incessante battaglia contro il fisco, e non potrà essere considerata reato finché le leggi tributarie rimarranno vessatorie e pesantissime (...)”.
Einaudi scriveva queste parole sul Corriere della Sera del 22 settembre 1907.
Qualcuno, anche recentemente, ha considerato tali affermazioni espressione di un atteggiamento molto realistico e tollerante nei confronti dell’evasione ed elusione fiscale, che diverrebbe in qualche modo giustificabile con l’accrescersi delle aliquote fiscali. Ma nello stesso articolo si legge un altro chiarificante passaggio: “È nobile impedire che alcuno si sottragga al suo debito tributario, in quanto la frode degli uni, immiserendo l’erario, lo costringe a gravare la mano su quelli che non possono frodare (...)”.
Dunque il pensiero del grande economista è che le tasse devono essere pagate da tutti, secondo un principio di solidarietà universale da parte di ogni cittadino contribuente, sia quello che subisce il prelievo fiscale alla fonte (lavoratore dipendente), sia quello che deve procedere all’autoliquidazione del debito tributario (lavoratore autonomo e impresa), aggiungendo che affinché questo obiettivo possa essere più facilmente raggiunto occorrono due concomitanti condizioni: 1) che il carico fiscale non sia “eccessivo” se non addirittura “vessatorio”, 2) che per ridurre questo carico occorrono controlli efficaci affinché chi può, non si sottragga al proprio debito tributario, a scapito di chi non può farlo perché le tasse sono prelevate alla fonte.
L’ordinamento già riconosce l’effettivo stato di necessità quale scriminante per l’applicazione di sanzioni penali in ambito tributario; in questo quadro si iscrive la riconsiderazione dell’evasione fiscale di sopravvivenza, in alcune pronunce dei giudici tributari. E’ questo il caso, ad esempio, quando si verifica una accertata necessità di evasione per poter corrispondere gli stipendi ai dipendenti. Dunque non può l’elevata pressione fiscale costituire, né a livello politico né giuridico, una giustificazione in via generale all’evasione o elusione cd. “difensiva”.
Il tema della riduzione e semplificazione non ha mai cessato di essere di attualità, ed oggi riveste un carattere di particolare novità nel dibattito sulla promessa elettorale della cd. “flat tax”.
Lo stesso Einaudi scriveva ancora nel 1952: “La riforma tributaria non avrà mai alcun successo se non si ridurranno le tassazioni a limiti più umani.”
Limitando il campo d’analisi alle imposte dirette (Irpef e Ires) e lasciando quindi da parte il tema delle imposte indirette (IVA in primis), l’argomento topico intorno a cui ruota il discorso sulla giustizia ed equità fiscale, quale corollario del più ampio principio della giustizia ed equità sociale, rimane oggi come allora quello del livello delle aliquote tributarie.
Partiamo dalla Costituzione, che impronta e guida qualunque intervento del legislatore ordinario. Così recita l’art. 53: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
Il dettato costituzionale esprime il principio solidaristico della “capacità contributiva”, coniugato con quello della progressività. 
Ragione per la quale l’idea di una aliquota “unica” non è praticabile (a meno di una modifica costituzionale), e difatti la recente proposta elettorale di cd. flat tax è stata articolata in due aliquote, con alcuni correttivi sulla determinazione della base imponibile e clausole di salvaguardia. Rimane il dubbio se questo sia sufficiente a soddisfare il duplice principio della Costituzione, proporzionalità e progressività; questione che potrà essere esaminata in concreto quando la proposta si trasformerà in progetto di legge.
E’ comunque evidente che una riduzione del carico fiscale si imponga, sia sui cittadini che sulle imprese, per giungere a quei “limiti umani” della tassazione cui si riferiva Einaudi, quale presupposto favorevole alla maggiore compliance tributaria del contribuente; sebbene nei tempi in cui egli scriveva lo scaglionamento delle aliquote fosse ben diverso e più articolato di quello attuale, basti pensare che ancora nel 1974, anno dell’entrata in vigore della riforma fiscale con introduzione dell’Irpef, l’aliquota massima viaggiava sul 72% (se pur gravante su redditi molto alti, superiori ai 500 milioni di lire).
La semplificazione e riduzione delle tasse trova quindi una valida giustificazione politico-economica non solo, a livello macro, nell’esigenza di favorire la competitività delle imprese, l’aumento dei consumi, l’individuazione ed emersione di redditi nascosti e sottratti al fisco (obiettivi tutti positivi ed auspicabili, purtroppo solo programmatici e non automatici), ma anche, sul piano micro del cittadino comune e delle fasce meno abbienti, nella necessità di rispettare un altro principio costituzionale, espresso dall’art. 36, che recita “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa (…)”. Obiettivo che sarebbe per la verità perseguibile in modo diretto e mirato anche attraverso una riduzione del cd. cuneo fiscale (accentuando in maniera più decisiva l’azione avviata dal precedente governo).
Le principali critiche che si muovono alla cd. flat tax di cui sinora si legge nel cd. contratto di governo sono duplici: 1) l’aliquota massima, ritenuta troppo bassa e vantaggiosa solo per i redditi più alti (tanto da costringere a prevedere, in contraddizione con lo scopo di semplificazione, un mantenimento del previgente regime fiscale mediante clausola di salvaguardia), 2) il sistema non si fonda sul principio dell’invarianza del gettito fiscale, che peraltro ne garantirebbe la costituzionalità (e dunque la stessa fattibilità concreta, posto il principio del pareggio di bilancio introdotto nell’art. 81 della Costituzione), ma scommette su un’aspettativa futura di copertura (recupero dell’evasione, aumento della base imponibile) che non è una copertura.
Una scommessa di questa portata, da attuarsi in deficit (e quindi con aumento del debito), sarebbe colpita dai mercati e dai guardiani degli equilibri di bilancio nazionale, molto prima che venga alla luce.
Per questo, affinché una buona idea non si limiti ad essere solo una irrealizzabile promessa, occorre partire con serietà e concretezza da premesse tanto evidenti quanto trascurate: il rispetto delle norme della Costituzione, l’articolazione secondo un sistema di aliquote (anche due) che si basi sull’invarianza della previsione di gettito fiscale, il rispetto degli equilibri di bilancio per evitare scossoni che le nostre finanze pubbliche non possono permettersi.
Le aspettative sull’annunciata riforma fiscale sono alte, come diceva il Leopardi “dipinte in queste rive son delle genti le sorti magnifiche e progressive”; le onde dei vincoli europei e della copertura finanziaria potrebbero disturbare la navigazione ed in tal caso, si consenta ancora la citazione leopardiana, non sarebbe così “dolce il naufragare in questo mare”.
Il bollettino prevede tasse piatte e bilanci mossi: avviso ai naviganti.
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