Nella XIV edizione della Festa del Cinema di Roma – sezione parallela “Alice nella città” è stato presentato il film “Famosa”, opera prima di Alessandra Mortelliti.
È la storia di Rocco Fiorella, un ragazzo che vive in un’ottusa provincia laziale e che, nel segreto del suo cuore, coltiva un sogno: partecipare a un talent show e diventare ballerino. Incompreso e sbeffeggiato nel suo paese, stupito e disilluso nella Capitale, Rocco vive la sua realtà – fatta d’infinite tristezze e intime gioie – attraverso smisurati silenzi e penetranti visioni. È un’anima solitaria, che si nutre della poesia delle piccole cose, e che, in punta di piedi, insegna alla società di cui fa parte, ma della quale è anche vittima, quanto il coraggio delle scelte e la sensibilità dei sentimenti rendano grande un uomo.
Ne abbiamo parlato con la regista Alessandra Mortelliti.
“Famosa” nasce come monologo teatrale, da te scritto e interpretato. Come è avvenuto il passaggio a film?
Ho interpretato il personaggio di Rocco Fiorella per molti anni. Nonostante a un certo punto lo abbia abbandonato, è rimasto ossessivamente nella mia testa: da qui l’esigenza di trasportarlo al cinema. Nella trasposizione cinematografica, Rocco Fiorella ha assunto una nuova identità, nel senso che ha conservato l’essenza del Rocco Fiorella teatrale, ma contemporaneamente si è trasformato, acquisendo sfumature diverse: se nella versione teatrale era goffo, disperato, grottesco, quasi una “strana creatura”, nella versione cinematografica vive di toni intimi, di non detto, e diventa, da un certo punto di vista, più affascinante: tutto viene filtrato attraverso i suoi occhi.
In questo passaggio, il protagonista – e quindi la storia – cosa guadagna e cosa perde?
Guadagna sicuramente sfumature e realismo, diventando più “normale”; perde la sua drammaticità esasperata ma guadagna poesia.
Eppure un testo teatrale è in genere più poetico rispetto alla sceneggiatura di un film!
Il testo teatrale era tutto giocato sul linguaggio di un ragazzo borderline, ai limiti del ritardo mentale, che parla in maniera strana; nella trasposizione cinematografica, insieme a Laura Pacelli (cosceneggiatrice, n.d.r.) ho cercato di trovare, invece, una sorta di equilibrio, dove il realismo spinto sfocia nella fiaba, nel magico. Rocco vive una realtà infelice, che filtra però attraverso uno sguardo meravigliato, delicato, poetico.
Come definiresti il protagonista?
Rocco può essere considerato un nuovo Pinocchio, infatti la sua storia ricalca un po’ le tappe della favola di Collodi: Roma è una sorta di paese dei balocchi che si tramuta in una realtà orribile, la zia diventa la fata madrina, il ragazzo di cui è innamorato è un moderno Lucignolo, i due balordi che incontra a Roma sono il gatto e la volpe.
In questo “viaggio”, il protagonista individua nell’arte una possibilità di rivalsa…
Rocco ha una forte passione per la danza, che però vive in maniera puerile, ingenua, e quindi, arrivato dalla provincia nella Capitale, diventa vittima anche della sua stessa velleità artistica, troppo pura, troppo semplice.
L’arte può rendere vittima?
Assolutamente sì, l’arte può rendere anche vittime di se stessi se non si riescono a gestire le proprie aspirazioni, i propri limiti, se non si è consapevoli che serve anche una buona dose di fortuna per avere successo, se non si ha, infine, la personalità adatta: si può avere tanta arte dentro di sé, ma non avere il modo giusto per esprimerla, per tirarla fuori.
Ma alla fine il protagonista riesce a raggiungere i suoi obiettivi?
Il finale del film non è positivo, è drammatico, struggente; però Rocco, in cuor suo, ce la fa: nel perdere – per il resto del mondo – in realtà vince.
Chi sono i destinatari del film?
Si potrebbe pensare che “Famosa” sia un film per ragazzi. Io non l’ho mai considerato così: lo vedo, piuttosto, come un viaggio nella testa di un ragazzo. È rivolto a tutti, forse ancor di più a tutti quegli esseri umani che non hanno trovato ancora la loro collocazione nell’universo. È una storia piccola, sospesa nello spazio e nel tempo, in cui chiunque può riconoscersi.
Per te che hai una carriera di attrice alle spalle, com’è stato lavorare dietro la macchina da presa?
È stato molto bello, ma anche qui il teatro mi ha aiutato come mai avrei potuto immaginare: io facevo la messinscena come su un palcoscenico, e poi piazzavo la macchina da presa. Questo meccanismo teatrale mi ha aiutato molto anche con gli attori, che hanno una provenienza diversa: alcuni vengono “dalla strada”, come Jacopo Piroli (il protagonista, n.d.r.), altri sono professionisti, altri vengono proprio dal teatro: anche per questo motivo sono soddisfatta, perché credo tanto in questi strani cortocircuiti.
Progetti per il futuro?
Aspettando l’uscita del film nelle sale, tra marzo e aprile 2020, sto lavorando già al prossimo progetto, sempre tratto da un mio testo teatrale – eh, sì, ho preso il vizio! – “La vertigine del drago”, che parla dell’incredibile amicizia tra una zingara e un naziskin della borgata romana.