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Dazi di Trump, la vera scossa deve ancora arrivare

- di: Matteo Borrelli
 
Dazi di Trump, la vera scossa deve ancora arrivare
Dazi di Trump, la vera scossa deve ancora arrivare
L’illusione della fiammata commerciale nasconde una frenata lunga: per l’Italia e l’Europa il conto arriverà tra 2026 e 2027, tra export in calo, rilocalizzazioni e catene globali spezzate.

La tempesta dei dazi è già partita, ma la vera onda d’urto deve ancora abbattersi sull’economia mondiale. L’America di Donald Trump ha trasformato i dazi in uno strumento permanente di politica economica e geopolitica, alzando l’aliquota media sulle importazioni a livelli che non si vedevano dagli anni Trenta. Per ora l’effetto è stato mascherato da una corsa agli acquisti prima dell’entrata in vigore delle nuove tariffe, ma gli organismi internazionali sono chiari: la fase più dolorosa si vedrà quando il “frontloading” sarà finito e la nuova normalità fatta di barriere, ritorsioni e incertezza entrerà a pieno regime.

Nel mirino non c’è solo la Cina. La stretta riguarda anche l’Europa e l’Italia, colpite da tariffe generalizzate sui beni industriali, dall’acciaio alle auto, dagli alimentari alle tecnologie. Il risultato è un mix letale: domanda statunitense rallentata, dollaro debole che erode la competitività di prezzo dei prodotti europei, pressione a rilocalizzare negli Usa fette di produzione oggi radicate nel Vecchio continente.

La sbornia del frontloading

La prima reazione ai nuovi dazi è stata quasi paradossale. Nel 2024 e nei primi mesi del 2025 il commercio mondiale ha messo a segno una crescita sorprendentemente robusta, trainata proprio dall’America che importava più del normale per riempire i magazzini prima dell’innalzamento delle barriere. Gli economisti la chiamano “frontloading”: compro oggi, prima che il dazio renda domani lo stesso bene molto più caro.

Secondo le stime di Wto, Fmi e Ocse, questa sbornia ha gonfiato artificialmente le statistiche sugli scambi e sulla crescita, ma l’effetto è temporaneo. Nei loro scenari, una volta esaurita la corsa agli acquisti, la crescita del commercio è destinata a rallentare in modo significativo, mentre gli investimenti rallentano di fronte a un quadro di regole instabile e sempre più politicizzato.

Il messaggio di fondo è semplice: la festa è finita, il conto sta arrivando. La vera fase di aggiustamento scatterà tra il 2025 e il 2027, quando le nuove tariffe saranno pienamente incorporate nei prezzi, le scorte fatte in anticipo si saranno esaurite e le imprese avranno dovuto rivedere rotte, fornitori e piani di investimento.

Quando il conto arriva su crescita e occupazione

Per l’economia statunitense, la narrativa ufficiale è quella della protezione dell’industria nazionale e dell’occupazione. Ma i numeri che arrivano dagli organismi internazionali raccontano altro: l’innalzamento dei dazi ha già iniziato a frenare il Pil americano e, soprattutto, a comprimere la crescita globale. Gli aumenti generalizzati delle tariffe – dall’acciaio e alluminio al 50%, fino ai balzelli su auto, componenti, rame e una lunga lista di beni strategici – si traducono in costi più alti per imprese e consumatori, catene del valore più rigide, margini erosi.

Le analisi dell’Ocse stimano una progressiva decelerazione della crescita mondiale nei prossimi anni, con un contributo negativo proprio dalle politiche commerciali restrittive. Gli economisti del Wto, a loro volta, calcolano che la combinazione tra dazi reciproci e incertezza sulle regole possa tagliare in modo significativo i volumi di scambio rispetto a uno scenario senza guerra commerciale, con effetti particolarmente pesanti per i Paesi più esposti alle esportazioni manifatturiere.

In questo contesto, lo stesso “America first” rischia di trasformarsi in “America more fragile”: meno concorrenza, meno incentivi a innovare, filiere più corte e meno efficienti. E un precedente politico pericoloso, che altri attori – dalla Cina alla Russia, passando per numerosi Paesi emergenti – possono usare come giustificazione per propri muri tariffari e controlli alle esportazioni.

Italia stretta tra dazi, euro forte e dollaro debole

Se a Washington i dazi vengono venduti come strumento di rinascita industriale, in Italia sono vissuti come un triplo shock: barriere più alte, dollaro indebolito rispetto all’euro e rallentamento della domanda globale. Il Centro Studi di Confindustria ha quantificato in fino a 16,5 miliardi di euro la riduzione potenziale delle vendite italiane negli Stati Uniti nel medio periodo, pari a circa il 2,7% dell’export totale, con un impatto particolarmente duro sul manifatturiero. Nel lungo periodo, avverte l’associazione, il rischio è la rilocalizzazione negli Usa di intere fette di produzione oggi collocate in Europa.

Il crollo di agosto dell’export italiano verso gli Stati Uniti – oltre -20% su base annua dopo mesi di corse agli ordini pre-dazi – è stato il primo campanello d’allarme concreto. La stessa Confindustria ha parlato di “prospettive dell’export sensibilmente riviste al ribasso”, in un quadro in cui, oltre alle tariffe, pesa la debolezza della domanda europea e l’andamento del cambio.

Anche la Banca d’Italia ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita per il 2026, indicando esplicitamente i dazi Usa e l’apprezzamento dell’euro tra i fattori che stanno erodendo la competitività dell’export italiano. Il messaggio è chiaro: il contributo delle esportazioni alla crescita del Pil sarà più debole, e una quota consistente della manifattura dovrà reinventare mercati, strategie e catene di fornitura per non perdere terreno.

Settori a rischio: auto, moda, agroalimentare

Dietro le cifre aggregate si nascondono nomi e cognomi di settori chiave. Secondo le simulazioni di Confindustria e di altri centri di ricerca, l’impatto più pesante si concentra su autoveicoli e componentistica, alimentari e bevande, macchinari, pelli e calzature, oltre a una serie di produzioni di nicchia ad alto valore aggiunto.

Per l’<strong’automotive<>, i nuovi dazi statunitensi sui veicoli medi e pesanti e sui componenti scattano proprio mentre il settore è impegnato in una costosa transizione verso l’elettrico e le tecnologie digitali. Aumentare il prezzo finale di un’auto italiana sul mercato Usa significa regalare quote di mercato ai costruttori locali – protetti dalle stesse barriere – o ad altri concorrenti che riescono a produrre direttamente negli Stati Uniti.</strong’automotive<>

Nel made in Italy agroalimentare, il combinato disposto di dazi e indagini antidumping – come nel caso della pasta, dove si profilano tariffe aggiuntive vicine o superiori al 90% – rischia di colpire un mercato che vale centinaia di milioni di euro l’anno. Anche vino, olio, formaggi e prodotti di alta gamma sono sotto pressione: margini più stretti, catene distributive da ripensare, possibili riduzioni di assortimento sugli scaffali Usa.

La moda e il lusso, altro pilastro dell’export italiano, soffrono da una parte la frenata globale del settore, dall’altra l’incertezza continua sulle tariffe americane. Gli imprenditori avvertono che non è solo un problema di percentuali: il messaggio politico di un’America che chiude le porte colpisce al cuore un modello costruito su apertura, viaggi, fiere, contatto diretto con i buyer internazionali.

Delocalizzazioni e frattura delle catene globali

Le imprese non stanno a guardare. Nelle regioni più esposte all’export verso gli Stati Uniti – come la Lombardia – oltre la metà delle aziende esportatrici sta già ridisegnando le proprie strategie: chi cerca nuovi mercati, chi valuta stabilimenti produttivi direttamente negli Usa, chi rivede i contratti di fornitura lungo tutta la catena del valore.

Un effetto collaterale dei dazi, infatti, è la spinta alla rilocalizzazione: se produrre in Italia per vendere negli Stati Uniti diventa troppo costoso, cresce l’incentivo a spostare una parte della produzione oltre oceano per aggirare le barriere. Nel breve periodo questo può apparire razionale per la singola impresa, ma nel medio-lungo periodo significa svuotare il tessuto produttivo europeo di competenze, occupazione e capacità innovativa.

Al tempo stesso le catene globali del valore si spezzano o si accorciano. Fornitori italiani che lavoravano per grandi gruppi europei indirizzati verso il mercato Usa rischiano di perdere commesse non perché non siano competitivi, ma perché l’intera filiera viene ricostruita per minimizzare l’impatto dei dazi. È una frattura silenziosa, che non fa notizia come i tweet del presidente americano, ma che nel giro di pochi anni può ridisegnare la geografia industriale del continente.

L’Europa tra fermezza regolatoria e tentazione del compromesso

La guerra dei dazi non si gioca soltanto sui prodotti industriali. Negli ultimi mesi lo scontro si è allargato al terreno delle regole digitali. Trump ha minacciato “dazi sostanziali” e restrizioni alle esportazioni contro tutti i Paesi che introducono tasse sui servizi digitali o applicano norme considerate “discriminatorie” verso le Big Tech statunitensi. Il messaggio è esplicito: se volete meno dazi su acciaio, alluminio e auto, alleggerite il vostro impianto regolatorio su piattaforme, dati, concorrenza.

La Commissione europea ha reagito rivendicando il proprio diritto sovrano di regolamentare il digitale, ricordando che normative come il Digital Markets Act e il Digital Services Act si applicano a tutte le grandi piattaforme, comprese quelle cinesi, e che numerosi procedimenti riguardano anche colossi Usa. Vicepresidenti e commissari hanno ribadito che non esiste un “baratto” tra dazi e tutela dei consumatori.

Ma la tentazione del compromesso è forte: una parte del mondo industriale europeo teme che il braccio di ferro su regole e tasse digitali finisca per tradursi in nuove ritorsioni tariffarie, in un effetto domino su investimenti, filiere e occupazione. La posta in gioco è doppia: chi scrive le regole della nuova economia di dati e intelligenza artificiale, e chi paga il prezzo delle ritorsioni incrociate.

La trappola per i Paesi emergenti

Il disastro dei dazi non è solo una storia tra Stati Uniti, Europa e Cina. Le simulazioni del Wto segnalano che la combinazione tra barriere commerciali, incertezza e tensioni geopolitiche colpisce in modo sproporzionato i Paesi emergenti, che spesso non hanno la forza di negoziare accordi bilaterali favorevoli o di diversificare rapidamente mercati e fornitori.

Per molte economie in via di sviluppo, esportare verso Stati Uniti ed Europa significa avere accesso a tecnologia, investimenti e valuta pregiata. Se l’architettura del commercio globale diventa un mosaico di muri, deroghe e favoritismi, il rischio è quello di una nuova frattura Nord-Sud: da una parte i grandi blocchi che possono imporre le proprie condizioni, dall’altra Paesi costretti a inseguire regole scritte altrove.

In questo scenario, la scelta dell’Europa di difendere un ordine multilaterale basato su regole chiare e tribunali arbitrali indipendenti non è solo una questione di principio, ma una leva di politica estera. Ogni volta che accetta di trattare bilateralmente sotto minaccia di dazi, indebolisce la propria capacità di attrarre partner e alleati nel resto del mondo.

Perché il peggio deve ancora arrivare

Il quadro che emerge è quello di un rallentamento a scoppio ritardato. Oggi i dati sull’export italiano ed europeo sono un mix di frontloading passato, contratti pluriennali ancora in essere e imprese che cercano di assorbire l’urto. Ma tra il 2026 e il 2027 le nuove tariffe saranno pienamente incorporate nei listini, molte catene di fornitura saranno state riconfigurate e la rilocalizzazione negli Usa avrà prodotto i suoi effetti.

Per l’Italia questo significa almeno tre cose. Primo: l’export verso gli Stati Uniti non tornerà ai livelli pre-dazi per molti anni, con particolare sofferenza per i comparti più esposti e meno diversificati. Secondo: la pressione a spostare capacità produttive e funzioni strategiche oltre oceano tenderà ad aumentare, mettendo a rischio la densità industriale di interi distretti. Terzo: la scelta europea tra difesa del quadro regolatorio e piccoli compromessi tattici sui dazi determinerà se l’Unione sarà percepita come un polo autonomo o come un vaso di coccio tra giganti.

In un mondo in cui l’America trumpiana usa i dazi come clava politica, limitarsi a sperare in una tregua non basta. Servono strategie industriali europee di lungo periodo, politiche fiscali mirate a sostenere investimenti e innovazione, una diplomazia commerciale più assertiva e un sostegno concreto alle imprese che cercano nuovi mercati. Perché il vero disastro dei dazi non è l’annuncio di oggi, ma la lenta erosione di crescita, lavoro e competitività che rischia di esplodere domani.

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