Draghi in Senato: "Sull'Ucraina l'Italia non fa passi indietro"

- di: Redazione
 
Il discorso del presidente del Consiglio, Mario Draghi, sull'Ucraina, pronunciato stamattina in Senato, non doveva per i suoi contenuti sorprendere nessuno e così è stato, limitandosi, il premier, ad elencare cose in fondo già note e che poco o nulla spostano nel dibattito in corso nel Paese su come l'aiuto italiano debba concretizzarsi in favore di una nazione aggredita.
Un passaggio parlamentare che Draghi ha affrontato, ma di cui forse avrebbe fatto volentieri a meno, non avendo alcun effetto pratico, se non quello di consentire ai singoli partiti di ribadire posizioni già espresse, e quindi note, tra i fautori di un forte appoggio all'Ucraina e chi dubita della degli strumenti che tale appoggio giustificherebbe.

Draghi in Senato parla del conflitto in Ucraina

Per dirla con un pizzico di cinismo, il discorso al Senato di Mario Draghi è conseguenza non tanto della possibilità che il governo decida improvvise frenate o clamorose marce indietro, quanto dell'esigenza di qualcuno di ribadire le proprie posizioni e la rendita che da esse potrebbe derivargli. Mario Draghi, davanti ad un aula freddina e, in molti dei suoi componenti, distratta dallo spasmodico compulsare dei telefonini, ha descritto la situazione sul campo, le possibili complicazioni nel settore dell'approvvigionamento alimentare, lo stato delle trattative (se possono essere chiamate così), la situazione anche economica in Russia, e così via.

Una elencazione quasi ragionieristica, senza mai cedere alla seduzione di creare empatia, che forse uno statista dovrebbe sempre tenere nella sua valigetta dei trucchi. Dal quadro generale dipinto dal primo ministro escono solo conferme.
L'Italia resterà accanto al popolo ucraino, aggredito e massacrato, aprendo le sue porte ai profughi (e garantendo loro immediata assistenza); proseguirà nell'affiancamento delle forze armate di Kiev, nei modi comuni al resto dell'Europa non britannica: garantirà un flusso di aiuti materiali per alleviare i fortissimi disagi della popolazione; si impegnerà per riaprire una strada realmente sicura alle esportazioni alimentari (grano, soprattutto) da cui dipende il futuro immediato di molti Paesi, non solo quelli disagiati; si adopererà a riaccendere la speranza che si possa aprire un dialogo vero tra le parti, nella consapevolezza che la pace non potrà essere totale se non con un accordo.

Parole che possono apparire anche scontate, ma che, almeno nella parte che ha riguardato l'invio delle armi all'Ucraina, sono sembrate un forte richiamo alla responsabilità da parte di quei partiti o movimenti della maggioranza che oggi chiedono un cambio di strategia, non si capisce sino a che punto traducendo il pensiero di chi li ha votati oppure cercando di frenare sommovimenti interni. Oppure se si voglia andare a cercare voti in quel serbatoio di difficile decrittazione che è il mondo pacifista, facendo roteare rosari in mani che, sino a pochi mesi fa, non esitavano ad impugnare delle armi, anche se solo davanti alle telecamere.
Il modello cui Draghi continua ad informare le azioni del governo è quello della risoluzione adottata il primo marzo, rispetto alla quale, ha fatto capire, il quadro generale non è mutato al punto da cancellarla o ridurne gli effetti.

La risoluzione, ha detto il primo ministro, ''ha impegnato il governo a sostenere Kiev dal punto di vista militare'', ricordando a chi oggi contesta che i voti che approvarono quell'indirizzo erano anche i suoi.
E' apparso chiaro che oggi, in Senato, molte delle parole pronunciate da Draghi fossero rivolte (oltre che allo spirito neo-gandhiano della Lega) non tanto ai Cinque Stelle - che non hanno certo, in questo periodo, l'unione come tratto politico caratterizzante - quanto al loro leader, che ha scelto la strada della contestazione minacciando, più o meno palesemente, la crisi, spesso prendendo spunto da problemi che lui stesso ha causato.

Come insegna - ma è solo l'ultima - la votazione che ha portato Stefania Craxi alla presidenza della Commissione Esteri del Senato, dopo che il candidato grillino a sostituire il defenestrato Petrocelli, Licheri, è stato colpito e affondato. Una conduzione cervellotica di una vicenda che doveva avere una conclusione scontata, ma che non ha avuto buon fine per il clima di conflittualità perenne che Conte sembra avere scelto per recuperare parte dell'elettorato ormai perso.
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