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La diplomazia della rissa: l'alfabeto ferito del potere globale

- di: Redazione
 
La diplomazia della rissa: l'alfabeto ferito del potere globale

Vivace, tagliente e necessario, la diplomazia della rissa (Franco- Angeli) di Antonio Picasso, Stefano Polli e Renato Vichi è un saggio che mette il lettore davanti a una verità scomoda: il linguaggio non descrive più la politica internazionale, la plasma, la altera, la incendia. Gli autori, forti di un’esperienza diretta nei mondi del giornalismo e della comunicazione istituzionale, mostrano come la parola - un tempo calibrata come strumento di equilibrio - sia oggi diventata una tecnologia di potere.  

La diplomazia della rissa: l'alfabeto ferito del potere globale

La perdita di misura, la velocizzazione estrema, la retorica muscolare non sono deviazioni occasionali: sono la nuova normalità della diplomazia contemporanea, come documentato con rigore nel volume.

Il linguaggio come arena

Il libro attinge ai casi più rilevanti degli ultimi anni, ricostruiti con scrupolo filologico: l’irruzione del “ciclone Trump”, la mutazione digitale delle crisi mediorientali, la propaganda 2.0 russa e ucraina, l’iperbole permanente di leader come Erdogan e Milei. Ma ciò che colpisce non è la quantità degli episodi, bensì la loro omogeneità: ovunque la parola non media, divide; non prepara la trattativa, la sabota; non modera la tensione, la amplifica. La prefazione di Giampiero Massolo, lucida e severa, descrive questa deriva come un capovolgimento strutturale dell’ordine diplomatico, un passaggio storico in cui la forma non accompagna più la sostanza, ma la sostituisce.

Trump e la grammatica della forza

Nel capitolo dedicato agli Stati Uniti, la ricostruzione del linguaggio trumpiano diventa anatomia della rottura. Le frasi insultanti, la minaccia come argomentazione, la spettacolarizzazione del negoziato non sono gaffe: sono la nuova grammatica del potere, una sintassi pensata per destabilizzare la logica multilaterale costruita dal dopoguerra a oggi. Gli autori mostrano come questa torsione verbale abbia incrinato perfino il rapporto con l’Europa, trasformando un’alleanza storica in un duello simbolico.

La dimensione verbale diventa politica estera: i dazi, le intimidazioni, gli strappi diplomatici sono presentati come inevitabili prolungamenti di un linguaggio di scontro permanente, analizzato nel dettaglio sulle stesse parole del Presidente americano riportate nel libro.

Il mondo come ecosistema comunicativo malato

Il libro non punta il dito contro i soli leader, ma contro un ambiente comunicativo che produce e alimenta il degrado. I social network, con la loro riduzione del discorso a impulsi brevi e polarizzanti, hanno creato uno spazio dove la complessità è percepita come difetto e la moderazione come debolezza. Gli autori mostrano come la continuità tra propaganda, disinformazione e diplomazia non sia casuale: è il frutto di un ecosistema in cui la verità non scompare, semplicemente perde potere.

Ed è questa perdita di potere, spiegano, a generare una geopolitica instabile, frammentata, dominata da narrazioni urlate più che da analisi credibili.

Una proposta civile prima che politica

Eppure, nella lucidità a tratti impietosa del volume, c’è uno spiraglio. Gli autori non sono nostalgici di una diplomazia imbalsamata: rivendicano la necessità di recuperare la precisione del linguaggio come infrastruttura della democrazia. La loro tesi, rigorosa, è che la parola non è un ornamento ma un vincolo morale: quando si deteriora, trascina con sé la politica, le istituzioni, la coesione sociale. Per questo La diplomazia della rissa è un libro civile prima che politico.

Non offre soluzioni facili, ma un metodo: reimparare a pesare le parole, a considerarne il peso specifico nella costruzione dell’ordine internazionale. È una chiamata alla responsabilità del discorso pubblico, non un esercizio accademico. Gli autori intrecciano analisi, cronaca e riflessione culturale con una padronanza rara del materiale linguistico e geopolitico. Ogni capitolo dimostra come la parola abbia progressivamente perso peso specifico, trasformata in una miscela di propaganda, emotività e calcolo strategico. Il risultato è un panorama internazionale in cui la semantica anticipa le mosse militari, la retorica costruisce scenari prima ancora che essi si concretizzino, e le opinioni pubbliche vengono trascinate in un vortice che premia il rumore più della competenza.

Questo processo, spiegano con chiarezza Picasso, Polli e Vichi, non è neutrale. Quando la parola perde rigore, perde capacità di rappresentare la realtà; e quando la realtà non è più rappresentabile, diventa manipolabile. In questa opacità prosperano polarizzazione, complottismi e leadership muscolari. Il libro però non cede al fatalismo: insiste sulla possibilità di invertire la rotta, ripartendo da un lessico che torni strumento di comprensione e non di distorsione. Una civiltà linguistica, ricordano gli autori, è la condizione minima per evitare che la politica estera venga ridotta a un videogioco di minacce. Recuperare la misura non è un vezzo, ma un gesto di responsabilità collettiva.

E qui il libro diventa militante nel senso più alto: invita il lettore a riconoscere che ogni parola contribuisce al clima culturale in cui si formano le decisioni globali. Una diplomazia che torni negoziabile richiede una cittadinanza che torni esigente verso il linguaggio: precisa, vigile, non manipolabile. La diplomazia della rissa mostra che la vera frattura del nostro tempo non è tra Occidente e Oriente, né tra democrazie e autocrazie, ma tra culture che credono ancora nel potere della parola e culture che la usano come detonatore. Un monito netto, che rende questo saggio non solo attuale ma indispensabile. Una lettura che obbliga a guardare il mondo senza scorciatoie interpretative, ricordando che ogni crisi comincia sempre da un cedimento del linguaggio.

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