Dall'Amazzonia di Salgado agli animali di McCurry: l'arte dello scatto in cinque mostre
- di: Samantha De Martin
Immergersi nella natura per salvarne ciò che resta. Cucire, attraverso l’obiettivo, una poesia impregnata di foreste e corsi d’acqua, animali e sciamani, maghi dalle barbe arancioni, con il loro grido disperato di speranza e di salvezza. È il miracolo della fotografia che incontra il mondo, invitando a esplorarlo con i suoi drammi e la bellezza incontaminata, la sua forza e le fragilità da difendere. Il dialogo tra i maestri dello scatto e l’universo, con la sua straordinaria umanità, a colori o in bianco e nero, è il fil rouge che lega cinque grandi mostre all’agenda autunnale dell’arte.
La natura e la fotografia si intrecciano nelle mostre dell'agenda autunnale dell'arte
Per sette anni il fotografo brasiliano Sebastião Salgado ha vissuto nella foresta amazzonica registrando l’immensa potenza della natura e cogliendone la fragilità. Questo lungo periodo di vissuto umano e di spedizioni fotografiche compiute via terra, acqua e aria sono il fulcro della mostra Sebastião Salgado. Amazônia, in corso al MAXXI di Roma - Museo nazionale delle arti del XXI secolo - fino al 13 febbraio. Nell’unica tappa italiana di questo progetto il maestro espone oltre 200 fotografie, “testimonianza di ciò che resta di questo patrimonio immenso, che rischia di scomparire” come lo stesso Salgado afferma, e della cui tutela ogni singolo essere umano è custode. Il progetto - una prova che nella storia non esistono sogni solitari - segue il filo delle immagini, magistralmente disposte nello spazio dalla cura di Lélia Wanick Salgado, accompagnando il pubblico tra il paesaggio - al centro della prima sezione della mostra, con i suoi fiumi volanti e i rilievi montuosi - e i volti alle popolazioni indigene che sbucano dalla seconda parte del percorso.
Ci sono gli Awá-Guajá, la tribù più minacciata del pianeta, e c’è lo sciamano Yanomami a dialogo con gli spiriti, o ancora le Anavilhanas, le isole boscose del Río Negro, dove sottili lembi di terra si sfilacciano lungo l’ipnotico fluire dell’acqua, sotto un corposo cielo di nuvole. Il viaggio nel mondo seguendo l’obiettivo dei maestri dello scatto corre dall’Amazzonia di Salgado al martoriato Afghanistan colto da Steve McCurry nei suoi lati più oscuri, tra episodi di violenza e segregazione. I minatori di Pol-e-Khomri o i bambini che affollano il bagagliaio di una vecchia Chevrolet incontrano i visitatori di Icons, la mostra allestita fino al 13 febbraio a Conegliano (Treviso) e curata da Biba Giacchetti. Questo viaggio onirico nelle sale di Palazzo Sarcinelli, tra le icone del fotografo, ha la consistenza di oltre cento fotografie prodotte in 40 anni di carriera. L’India dei monsoni e delle reboanti contraddizioni ha il volto di una madre che osserva, assieme al figlio, l’interno di un taxi o l’atmosfera malsana dei cantieri di demolizione delle navi. McCurry affonda l’obiettivo in luoghi affollatissimi dove miseria e ricchezza sembrano convivere armoniosamente.
Sorprende l’anziana signora di Vrindavan, il mago del Rajasthan dalla barba arancione o il sarto che trasporta la sua macchina da cucire in piena stagione di monsoni. E poi sfida il Taj Mahal, a guardia della città di Agra, ponendolo al centro di uno scatto insolito e straordinariamente vivo. Il buddismo riposa invece nei grandi mausolei come la pagoda di Mingun e il complesso monumentale di Angkor in Cambogia, vibra tra gli acrobatici monaci shaolin e gli abitanti del Giappone, con i quali entriamo in totale empatia grazie alla scelta dei piani ravvicinati. Dal 1992, anno della missione nei territori di guerra nell’area del Golfo per documentare il disastroso im-patto ambientale e faunistico nei luoghi del conflitto, McCurry volge il suo sguardo agli animali. Dal Golfo tornerà con le iconiche immagini dei cammelli che attraversano i pozzi di petrolio in fiamme e gli uccelli migratori cosparsi di petrolio, le stesse che scandiscono il percorso Animals, atteso dal 27 novembre al 1° maggio a Torino, presso la Palazzina di Caccia di Stupinigi. Cani, serpenti, elefanti danno forma a un mosaico di mille e una storia, un’opera corale fatta di interazione e condivisione che esplora le diverse sfaccettature della vita animale e dei suoi legami con l’umanità. In viaggio dall’Africa agli States, fino al Giappone, il fotografo che ha stregato il mondo con gli occhi di ghiaccio della Ragazza afgana è pronto a sorprenderci nuovamente con le sue immagini vivide catturate nel flusso della vita quotidiana, tra animali amati e riconosciuti come compagni di vita o talvolta sfruttati, unica risorsa per sottrarsi alla miseria. Un’altra umanità, protagonista della società del Secondo dopoguerra, sfila invece dietro l’obiettivo di un altro grande maestro tradizionalmente conosciuto per la sua fotografia in bianco e nero.
In Capa in color, in corso fino al 13 febbraio alle Gallerie Estensi di Modena, un insolito Robert Capa sorprende gli ospiti con un percorso dedicato al suo legame con la fotografia a colori. “Tutte le immagini in mostra - spiega Martina Bagnoli, direttrice delle Gallerie Estensi - sono state scansionate e poi corrette cromaticamente per restituire alle pellicole il colore sufficiente per renderle adeguate alla versione originale, visto che, con il passare del tempo, queste avevano subito perdite di colore importanti”. Dopo i reportage della Seconda Guerra Mondiale, l’attività di Capa si orienta esclusivamente verso l’uso di pellicole a colori, seducendo i lettori anche un interessante ritratto dell’alta società, dalle stazioni sciistiche più alla moda delle Alpi svizzere alle spiagge francesi chic di Biarritz e Deauville. I suoi lavori scrutano attori e registi - da Ingrid Bergman a John Huston - ma anche gli artisti, come Pablo Picasso, fotografato su una spiaggia con il figlio Claude, o Giacometti, in posa nel suo studio di Parigi. Questo immaginario a colori diventa parte indissolubile della ricostruzione del dopoguerra, con il pubblico che, reduce dal conflitto, cerca l’evasione in luoghi lontani.L’ultima tappa di questa giostra tra i maestri dello scatto ci porta, dall’Amazzonia di Salgado alla piazza parigina che ospita l’Hôtel de Ville dove si diventa spettatori di uno dei baci più famosi della storia.
“Mi piacciono le persone per le loro debolezze e difetti”. La pensava così Robert Doisneau, protagonista a Rovigo di un percorso allestito a Palazzo Roverella. Fino al 30 gennaio 130 stampe ai sali d’argento in bianco e nero, provenienti dalla collezione dell’Atelier Robert Doisneau a Montrouge, celebrano l’universo di uno dei padri fondatori della fotografia umanista francese e del fotogiornalismo di strada. A differenza di molti colleghi della sua generazione, Doisneau viaggia poco, preferendo perdersi nella sua Parigi, tra donne, bambini e uomini ai quali rivolge la sua macchina fotografica con sguardo empatico. La mostra affianca fabbriche e bistrot, cerimonie e scene di strada, cucite con uno stile che mescola fascino e fantasia. “Quello che cercavo di mostrare - ricordava l’artista - era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere”.