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David di Donatello, quattro autori per un’Italia che si guarda allo specchio

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
David di Donatello, quattro autori per un’Italia che si guarda allo specchio

C’è qualcosa che torna, ogni anno, nel rito laico dei David di Donatello. Non è solo una celebrazione dell’industria cinematografica, né soltanto la conta delle statuette. È un momento in cui, forse inconsapevolmente, l’Italia si guarda allo specchio. E in quello specchio, come accade in 8½ o in La dolce vita, non sempre si riconosce. L’edizione di quest’anno si gioca su un campo molto più profondo della competizione tra registi: è la memoria, con tutto il suo carico di nostalgia, di inquietudine, di urgenza. Sorrentino, Segre con Cavani, Golino e Delpero non stanno soltanto raccontando delle storie. Stanno cercando, ognuno a suo modo, di rispondere a una domanda che ci ossessiona da anni: che fine ha fatto l’Italia? E chi siamo diventati?

David di Donatello, quattro autori per un’Italia che si guarda allo specchio

Parthenope non è solo un film. È una meditazione sulla bellezza che sfugge, sulla giovinezza che evapora, sul desiderio che si consuma in sé stesso. C’è la Napoli di sempre, ma senza la caricatura. C’è la donna come mistero, ma anche come rovina. Sorrentino firma il suo film più femminile, più spoglio, forse più autentico. Come se dopo il potere, la religione, la politica, gli restasse soltanto il corpo e il ricordo. C’è in Parthenope una rinuncia lucida al cinismo, un ritorno a una purezza impossibile. Eppure necessaria. È un film che scivola via come sabbia, ma che nel suo svanire lascia segni profondi. È la Napoli che si guarda da fuori, come si guarda una vita che non ci appartiene più, ma che ci ha costruiti.

Segre e Cavani, la Storia con l’iniziale maiuscola
Quando Liliana Segre e Liliana Cavani si mettono insieme per raccontare Berlinguer – La grande ambizione, non stanno facendo un documentario. Stanno cercando di riannodare i fili di un tempo in cui la politica era etica, in cui si poteva morire per un’idea, in cui la sobrietà era una forma di grandezza. Berlinguer è l’ultimo italiano ad aver incarnato una speranza collettiva. Il film lo mostra senza agiografia, con pudore. E forse proprio per questo commuove. In un tempo in cui tutto è personalizzazione esasperata, marketing, identità fluide e narcisismo, Berlinguer torna come un relitto prezioso. Non per nostalgia, ma per confronto. Quella politica parlava alla testa e al cuore. E oggi, senza più né l’uno né l’altro, restano solo le macerie di un’epoca in cui “morire per delle idee” era ancora pensabile.

Golino e la libertà femminile come urto contro la storia
C’è poi L’arte della gioia, di Valeria Golino. Il film più pericoloso, il più divisivo, il più audace. La regista entra nella materia incandescente di Goliarda Sapienza con un rispetto sacrilego, sapendo che il testo è già tutto, ma che il cinema deve aggiungere l’incarnazione. Il risultato è un’opera che non chiede permesso. Una donna che non chiede scusa. Una storia che attraversa il Novecento siciliano mostrando quanto sia violenta la resistenza alla libertà. Golino non fa un film femminista. Fa un film necessario. E come tutte le cose necessarie, scandalizza, divide, infastidisce. Perché non cerca di piacere, ma di esistere.

Delpero e l’infanzia come riserva morale dell’Italia
Andrea Delpero non grida. Non scuote. Non urla. Ma proprio per questo, ferisce più profondamente. Il suo film – che qui chiamiamo Anna e l’infinito, per necessità narrativa – è una carezza che diventa colpo. La macchina da presa si abbassa all’altezza di una bambina e da lì non si sposta più. In un mondo che urla, che corre, che semplifica, Delpero ascolta. E ci ricorda che il cinema può ancora essere silenzio. Una bambina che osserva il mondo da una periferia qualsiasi diventa lo specchio di un Paese che ha perso l’abitudine alla dolcezza. Alla pazienza. Alla grazia. Il suo è un film inattuale. E proprio per questo, radicalmente moderno.

La memoria come campo di battaglia culturale
Tutti e quattro i film in gara, ognuno a modo suo, parlano della memoria. Ma non come archivio. Come battaglia. In un Paese che dimentica in tempo reale, il cinema si prende la responsabilità di ricordare. Non per celebrare. Ma per interrogare. Non per rassicurare. Ma per inquietare. Questi David ci raccontano che non siamo ancora del tutto perduti. Che ci sono ancora autori capaci di porre domande scomode. E che forse, proprio grazie a questa memoria ostinata, possiamo ancora sperare di salvarci. O almeno, di non smettere di cercarci.

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