Il Conte infuriato fa a pugni con il suo stesso passato da premier
- di: Redazione
Il teatrino della politica: così, qualche decennio fa, si definivano le apparenti baruffe che accompagnavano, nei palazzi del Potere, le fasi importanti del Paese, in cui ciascun partito - o addirittura ciascun esponente di ciascun partito - diceva, ammiccava, minacciava, accondiscendeva e alla fine trovava un accordo.
Quei tempi sembrano essere tornati oggi, ma con una aggravante: in gioco c'è la credibilità dell'Italia sullo scenario internazionale, messa a rischio dalla decisione di Giuseppe Conte, forte della riconferma alla guida dei Cinque Stelle, di sbarrare la strada all'aumento del bilancio per le spese della Difesa.
L'operato attuale di Giuseppe Conte cozza con le sue azioni da premier
In questa vicenda si intrecciano non solo le ragioni politiche di un partito (che devono essere sempre e comunque rispettate), ma anche le tensioni al suo interno, che stanno spingendo Conte ad andare anche contro la logica e la coerenza, portando la coalizione di governo verso una pericolosa conta in Parlamento, dall'esito sempre non scontato.
Il leader dei Cinque Stelle (sempre se abbiamo capito il senso della posizione che ha assunto dalle sue spiegazioni che tali non appaiono) sostiene che in questo momento quelle spese aggiuntive per la Difesa un Paese in crisi non se le può permettere. E lo dice con toni che sino a ieri gli erano estranei: facendo la faccia truce, alzando la voce, sbattendo la mano sulla scrivania, ma soprattutto dimenticando.
Dimenticando che l'Italia fa parte di un consesso internazionale del quale ha deciso di essere protagonista senza costrizioni da parte di chicchessia convinta (alla fine della seconda Guerra mondiale) che solo una grande alleanza militare di difesa poteva garantirle la pace, sia pure con la forza intimidatrice delle armi.
Ora, se una posizione contraria all'aumento degli stanziamenti venisse da una forza politica con una agenda di politica estera definita e quindi, usando una forzatura nella definizione, di ''deriva pacifista'', un atteggiamento del genere sarebbe giustificato, anzi quasi obbligato. Ma qui stiamo parlando non tanto di un partito, quanto dello stesso uomo politico che, quando era a palazzo Chigi, ha apposto la sua firma su documenti che hanno aumentato le spese militari non di uno ''zero virgola'', ma di parecchio.
Secondo i dati del Ministero della Difesa, infatti, nel momento in cui nel firmamento politico italiano fece la sua inaspettata apparizione Giuseppe Conte, passando dall'anonimato alla poltrona di primo ministro, il nostro bilancio ''militare'' era di circa 21 miliardi di euro, sostanzialmente lo stesso del 2008. Quel bilancio, nei tre anni (2018-2021) in cui Conte era a palazzo Chigi, è salito a 24,6 miliardi di euro. Che, tradotto in termini percentuali, significa +17 per cento.
Quindi, il Giuseppe Conte che sta mettendo a rischio il governo (cosa che può fare da componente la maggioranza) è lo stesso che ha adempiuto agli impegni europei, che oggi chiede di disconoscere nell'interesse superiore di un Paese in palesi difficoltà economiche.
Stiamo assistendo ad una mutazione antropologica perché, da un giurista, tutto ci si poteva aspettare meno che non rispettasse uno dei cardini del diritto, il rispetto degli accordi volontariamente sottoscritti.
Dire ''no'' all'aumento dei fondi della Difesa - quale che ne sia la motivazione - si traduce, oltre che in una mossa politica sul fronte interno, in una messa dell'Italia fuori dal quadro internazionale in un momento in cui la pace è messa a dura prova non da urla e minacce, ma da una guerra vera e propria.
Il sospetto è che Giuseppe Conte abbia ceduto a quella componente ideologica del Movimento che rivendica il passato, le estremizzazioni della lotta politica delle origini, dimenticando che ormai i Cinque Stelle non sono più un elemento estraneo perché fanno parte del gioco, per loro scelta. Anche il continuo ribadire di Conte di guidare il partito di maggioranza relativa in Parlamento, al di là dell'oggettività aritmetica, appare un blando e inconcludente tentativo di nascondere una verità diversa. Quella che colloca i Cinque Stelle in un limbo, in attesa che le prossime elezioni li releghino in una posizione di rincalzo rispetto agli altri partiti.