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La Cgil usa l'odiato Jobs Act per mandare a casa il portavoce di Landini

- di: Redazione
 
La Cgil usa l'odiato Jobs Act per mandare a casa il portavoce di Landini
Uno degli aspetti più affascinanti dello studio del linguaggio è che un idioma ''ufficiale'' spesso marcia su due binari paralleli: quello della tradizione (ovvero, del rispetto di grammatica, sintassi e del buongusto) e un altro che cerca strade più dirette, per essere più efficace nella comprensione.
Facciamo l'esempio di chi accetta tutto quanto, ma se ha il minimo sospetto che questo gli possa causare un problema, dice semplicemente: fatelo dove volete, ma non in casa mia. E' quel modo di pensare che negli Stati Uniti è sintetizzato dall'acronimo 'nimby', ovvero, non nel mio giardino di casa. In Italia abbiamo altri modi per ribadire lo stesso concetto, alcuni dei quali molto grevi che fanno riferimento a indirizzi sessuali e a parti del corpo con le quali esercitare il diritto alle proprie scelte.
Ora il formalismo che permea atteggiamenti e linguaggio di Maurizio Landini ci spingono a pensare che mai sarebbe volgare nello spiegare perché fa quel che fa, perché le regole che valgono per altri lui non le applica a casa sua (o almeno le applica a modo suo). Eppure è così, a sentire il trattamento riservato a Massimo Gibelli, per decenni portavoce dei vari segretari generali della Cgil, al quale, una calda mattina dello scorso luglio, è stato comunicato semplicemente che quello sarebbe stato il suo ultimo giorno di lavoro.

La Cgil usa l'odiato Jobs Act per mandare a casa il portavoce di Landini


E almeno gli è stata risparmiata l'umiliazione di consegnare subito le chiavi e chiudere le luci del suo ufficio prima di uscire.
Ora, sulla base dei quarant'anni passati in Cgil, della data di nascita (1958) e dell'anzianità contributiva, la decisione di interrompere il rapporto di lavoro con lui poteva trovare una qualche giustificazione di tipo normativo.

Ma qui il caso è parecchio diverso perché il grimaldello, l'ariete, il piede di porco usato dalla Cgil per mandare a casa quello che, per anni e anni, è stato il disponibile interlocutore di chi, giornalista, aveva quesiti o richieste, è stato il vituperato, odioso, stigmatizzato (dal maggiore sindacato italiano, e dallo stesso suo segretario generale in carica) Jobs Act.
Quindi, quello che ieri per Landini, era ''una follia'', era ''contro i lavoratori'' e andava cancellato è diventato, per Gibelli, il passaporto verso il licenziamento, il lasciapassare verso l'oblio (in senso lavorativo) e la green card per l'ingiustizia.

Si dirà che quello del portavoce è un incarico che si basa su un rapporto fiduciario (e di Gibelli si sono fidati i vari Lama, Del Turco, Trentin, Cofferati e Camusso) e, quindi, se appunto la fiducia viene a mancare, si può giustificare l'interruzione del rapporto. Si potrebbe anche aggiungere che, con l'avvento di Landini, la posizione di portavoce del segretario generale era stata soppressa, poiché lo stesso Landini non ne aveva bisogno.
Ma qui di caduta della fiducia non se ne è parlato, affidandosi ad un meccanismo, quello del Jobs Act, di cui s'é detto peste e corna, ma cui si è fatto ricorso quando è servito.
Incalzato da una troupe di Mediaset, messasi sulle sue tracce non appena venuta fuori la notizia, Landini ha tirato fuori il coraggio. Perché, a stare zitti e non rispondere a chi gli chiedeva se era a conoscenza del licenziamento di Gibelli e delle sue modalità, ci vuole veramente coraggio.

Soprattutto per chi non perde mai l'occasione, quando lo intervistano, di vestire i panni del fustigatore. Ma solo se non gli toccano il giardino di casa.
Gibelli non ha gradito e ha deciso che, di questa brutta storia, si occupi qualcun altro, magari un giudice del lavoro che cerchi di capire come sia stato possibile la sua esautorazione e quindi il licenziamento come se si trattasse della soppressione di un ramo d'azienda. Come se all'improvviso il Jobs Act, per la Cgil e quindi per Landini, sia diventato uno strumento cui fare ricorso e non più un istituto da combattere.
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