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Arte, scossa fiscale e svolta digitale: il 2026 che cambia tutto

- di: Bruno Legni
 
Arte, scossa fiscale e svolta digitale: il 2026 che cambia tutto
Arte, scossa fiscale e svolta digitale: il 2026 che cambia tutto
IVA al 5%, meno burocrazia e un “passaporto” per le opere: l’Italia prova a togliersi di dosso la ruggine e a rientrare nella partita europea.

(Foto: operaio manovra con un’opera d’arte).

La miccia è fiscale, ma l’esplosione è amministrativa

Se c’è un numero che nel 2025 ha fatto battere i polsi a galleristi e collezionisti, è il 5%. L’aliquota IVA ridotta sulle cessioni (e importazioni) di opere d’arte ha cambiato il clima, più ancora dei listini: dopo anni in cui l’Italia veniva percepita come un mercato “caro e complicato”, la leva fiscale ha innescato un effetto domino su fiducia, programmazione e attrattività internazionale.

Ma la vera notizia, guardando al 2026, è che la riduzione dell’IVA non viene raccontata come un punto d’arrivo: viene presentata come l’inizio di una stagione di riforme che ambisce a sbloccare la circolazione delle opere, fissare tempi certi per autorizzazioni e, nel medio periodo, mettere sul tavolo un’idea ambiziosa: un passaporto digitale per tracciabilità, provenienza e autenticità.

Artissima “stress test”: quando la fiera diventa laboratorio di politica economica

Il primo termometro credibile non poteva che essere una fiera. A Torino, Artissima 2025 ha funzionato da prova generale: operatori, gallerie estere, collezionisti in trasferta e una filiera che, finalmente, ha potuto misurare l’impatto della nuova aliquota in condizioni reali, non da circolare ministeriale.

“Artissima è stata il primo momento di verifica per l’IVA al 5%… una notizia di portata europea che ridefinisce il modo in cui l’Italia si colloca nel sistema dell’arte”.

La frase è di Luigi Fassi, direttore della fiera, e fotografa bene il punto: la riduzione dell’IVA è stata letta non solo come uno sconto, ma come un segnale di posizionamento. Non a caso il comunicato finale parla di “diplomazia culturale” e di confronto con i regimi fiscali europei, mentre i numeri (presenze e partecipazione internazionale) vengono usati come indicatori di “ritmo” ritrovato.

“Italia in scena”: la riforma che prova a togliere i lacci (e a mettere date sul calendario)

Nel 2026 la partita si gioca sul terreno più scivoloso: la burocrazia. Il perno legislativo è la proposta di legge che istituisce il circuito “Italia in scena” e interviene sul Codice dei beni culturali. Il provvedimento è passato alla Camera e attende il via libera definitivo al Senato: l’architrave è la promessa di rendere più prevedibili regole e procedure, per evitare che il “fattore tempo” diventi una tassa invisibile.

Tra i punti che più interessano il mercato:

• Spostamenti interni semplificati: meno passaggi autorizzativi per la movimentazione di beni notificati sul territorio nazionale, con l’obiettivo di tagliare attese e interpretazioni difformi.

• Tempi certi per l’esportazione: l’idea di una finestra massima per la licenza, così da evitare stalli che scoraggiano gli investitori e spingono le transazioni altrove.

• Soglie di valore aggiornate: la discussione punta a soglie più alte per l’attestato di libera circolazione, con l’intento di allinearsi (e possibilmente superare) i principali competitor europei.

Il messaggio politico è chiaro: meno “lacci e lacciuoli”, più certezza amministrativa. E, parallelamente, una cornice che prova a ridefinire il rapporto pubblico-privato nella valorizzazione, grazie anche a strumenti come l’anagrafe digitale dei luoghi e dei beni culturali di appartenenza pubblica.

La “notifica” e l’elefante nella stanza: tutela sì, ma con regole del 1939?

Ogni volta che l’Italia prova a modernizzare il mercato, riemerge il grande convitato di pietra: la notifica. Nel dibattito pubblico viene spesso raccontata come una spada di Damocle: non perché la tutela sia contestata, ma perché la sua applicazione può risultare imprevedibile e disomogenea, con effetti economici immediati su valore, liquidità e circolazione.

Nel cantiere riformatore torna una proposta ricorrente: alzare stabilmente l’orizzonte temporale dei vincoli (invece di restare ancorati a soglie ritenute troppo basse dal mercato). È uno dei nodi su cui, realisticamente, si misurerà la capacità di tenere insieme due promesse: proteggere e far vivere le opere.

Il colpo di teatro: un passaporto digitale per le opere

Qui la discussione smette di essere solo giuridica e diventa tecnologica. L’idea è semplice da enunciare e complessa da realizzare: associare a ogni opera un documento digitale “forte” che contenga i dati essenziali per identificarla e seguirne le vicende: provenienza, autenticità, tracciabilità, passaggi di proprietà rilevanti, eventuali vincoli, e – punto politicamente sensibile – la compatibilità con una circolazione più fluida in Europa.

“Un documento inviolabile… a garanzia di compratori e venditori”.

Quando entra in gioco la parola “blockchain”, l’istinto è dividere la platea in due: entusiasti e allergici. Ma il cuore del progetto non è l’hype tecnologico: è la promessa di ridurre contenziosi, falsi, incertezze e costi di due diligence, soprattutto sul segmento medio del mercato, dove non sempre esistono archivi solidi o procedure uniformi.

La finestra temporale evocata è ambiziosa: trasformare l’idea in norma entro la fine della legislatura, cioè entro il 2027. Se accadrà, sarà uno dei rari casi in cui un paese “vincolista” prova a diventare anche infrastrutturale: meno timbri, più dati.

Competizione europea: Parigi corre, l’Italia prova a cambiare scarpe

La rivalità non è un segreto: la Francia, con Parigi, viene citata come riferimento (e rivale) su IVA, regole e capacità di attrarre vendite e grandi eventi. I numeri aiutano a capire perché: secondo il Global Art Market Report 2025 di Art Basel e UBS, la Francia mantiene una quota del 7% del mercato globale per valore, confermandosi tra i primi quattro poli mondiali. L’Italia, invece, viene descritta da diversi osservatori come un mercato ancora più piccolo rispetto al potenziale culturale che esprime.

La riduzione dell’IVA è stata letta proprio così: non come un favore di settore, ma come un tentativo di evitare la “fuga” sistemica di transazioni verso giurisdizioni più efficienti, con un impatto a cascata su gallerie, logistica, restauri, assicurazioni e indotto.

Cosa può cambiare davvero nel 2026: tre scenari (molto concreti)

1) Più fiere e più sedi. Se il differenziale fiscale resta stabile e le procedure si accorciano, l’Italia può tornare appetibile non solo come vetrina culturale, ma come luogo dove chiudere affari senza complicazioni extra.

2) Meno “costi nascosti”. Tempi certi per export e regole meno opache riducono quel costo invisibile che oggi spinge molte operazioni a evitare il territorio italiano.

3) Trasparenza come asset competitivo. Un passaporto digitale ben progettato potrebbe diventare un marchio di affidabilità: non un obbligo punitivo, ma un vantaggio per chi vende e per chi compra, soprattutto sul mercato europeo.

Il punto politico: l’arte non come peccato, ma come filiera

Per anni, nel lessico pubblico italiano, il mercato dell’arte è stato raccontato con sospetto. Oggi la linea che emerge dai provvedimenti e dalle dichiarazioni istituzionali è opposta: l’arte come filiera economica, con una dimensione industriale e occupazionale che non può essere lasciata alla sola “passione”.

Il 2026, in questa narrazione, diventa l’anno in cui si tenta il salto: da paese ricco di patrimonio a paese capace di offrire anche regole moderne. È una promessa impegnativa, perché richiede continuità politica e capacità amministrativa. Ma, dopo il “numero magico” dell’IVA, il sistema chiede una cosa ancora più difficile: stabilità.

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