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La svolta americana: potere, affari e alleanze in frantumi

- di: Bruno Legni
 
La svolta americana: potere, affari e alleanze in frantumi
Un anno di Trump: profitti, vendette e l’America che arretra
Dodici mesi di Trump 2.0: affari che sfumano nell’etica, giustizia come clava e una diplomazia che riscrive le regole a colpi di “deal”.
 
(Foto: il presidente Usa Donald Trump).

 

 La presidenza come leva: potere, denaro e la zona grigia 

Un anno dopo il giuramento, la seconda presidenza di Donald Trump appare come un esperimento a cielo aperto: il potere esecutivo trattato come leva, la politica come arena di punizione e premio, la diplomazia come negoziato permanente in cui il valore di una regola conta meno dell’utilità del momento.

Sul fronte interno, l’accusa più ricorrente è quella di una normalizzazione del conflitto d’interessi. Organizzazioni civiche e watchdog hanno segnalato che Trump non avrebbe realmente “staccato” i fili dai suoi interessi imprenditoriali, alimentando una domanda semplice e corrosiva: quando parla il presidente e quando parla il brand? Secondo CREW, che ha avviato un tracciamento sistematico di visite e potenziali conflitti, la mancata separazione netta dagli interessi privati crea “moltiplicatori” di opacità, perché ogni scelta pubblica può assumere l’ombra del tornaconto.  

A rendere più ruvido il quadro, una serie di ricostruzioni su nuove iniziative economiche – incluse aree ad alta volatilità come criptovalute e piattaforme digitali – che, per critici ed esperti di etica, aprono canali di influenza indiretta: non serve “comprare” una decisione, basta entrare nella stessa stanza degli affari. Reuters ha raccontato già in primavera come alcune iniziative abbiano riacceso l’allarme su “monetizzazione” e conflitti d’interesse.  

Il punto politico, però, non è solo morale. È istituzionale: se l’idea di presidenza si sposta verso un modello “proprietario”, la fiducia pubblica diventa una variabile negoziabile. E quando la fiducia scende, il sistema si polarizza: ogni inchiesta è un complotto, ogni controllo è un abuso, ogni smentita è parte della guerra.

La giustizia come arena: retribuzione, indagini e il confine che si sposta

Il capitolo più esplosivo dell’anno è quello che ruota attorno a una parola che Trump ha usato spesso in campagna elettorale e poi, secondo molte ricostruzioni, ha portato nel metodo di governo: retribuzione.

Un’inchiesta di Reuters (novembre) ha censito un numero impressionante di bersagli – persone, istituzioni, figure pubbliche – indicati come obiettivi di iniziative punitive o intimidatorie, parlando di una campagna condotta “in piena luce” e non più dietro le quinte.  

Sul piano operativo, diverse testate americane hanno documentato l’aumento di azioni mirate: revoche di autorizzazioni, pressioni su procure, richieste di incriminazioni. Axios ha sintetizzato l’evoluzione con un titolo senza giri di parole: trasformare i nemici in imputati.  

A rendere la questione ancora più delicata è il nodo dell’autonomia del Dipartimento di Giustizia. L’International Bar Association ha raccolto l’allarme di giuristi e ex procuratori: quando la Casa Bianca “indica” chi perseguire, la linea di separazione si scolora. Barbara McQuade, ex U.S. Attorney, ha descritto come “quando il presidente chiede pubblicamente incriminazioni, è una violazione plateale dei limiti”.  

Non è un processo a un singolo atto, ma un cambio di temperatura: la minaccia di indagine diventa linguaggio politico. E la domanda che rimbalza a Washington è sempre la stessa: stiamo vedendo “law enforcement” o stiamo vedendo “politica con altri mezzi”? Protect Democracy ha costruito un framework per distinguere l’applicazione della legge dalla ritorsione, proprio perché la differenza – nella pratica – rischia di diventare invisibile. 

Immigrazione e sicurezza: lo stato di eccezione come prassi

Se la giustizia è il nervo, l’immigrazione è il muscolo: l’amministrazione ha spinto su strumenti emergenziali, alimentando scontri nei tribunali. Human Rights Watch ha contestato l’uso dell’Alien Enemies Act per detenzioni e deportazioni, definendolo un salto “senza precedenti” nel contesto moderno e segnalando rischi di violazione di standard internazionali.

La conflittualità legale è stata massiccia: ABC News, già nei primi 100 giorni, contava centinaia di cause e una raffica di ordinanze e contro-ordinanze, segno di un braccio di ferro strutturale tra potere esecutivo e potere giudiziario.

Il risultato è un clima di “permanente emergenza”: ogni crisi diventa giustificazione, ogni opposizione viene descritta come sabotaggio, ogni limite come intralcio imposto da élite ostili. È una grammatica politica che premia il comando e punisce la complessità.

Europa, Nato e alleati: l’America non guida, contratta

Sullo scacchiere globale, l’idea di “guida” americana è stata sostituita da un’altra parola: transazione. L’European Union Institute for Security Studies ha parlato di “bassa fiducia” nei rapporti transatlantici: dopo un avvio turbolento, ci sarebbero stati momenti di aggiustamento, ma le fondamenta – fiducia, prevedibilità, coordinamento – restano incrinate.

Nel dicembre 2025, la pubblicazione della nuova National Security Strategy ha dato forma teorica a questa postura. Brookings descrive una strategia che riorienta gli Stati Uniti verso l’emisfero occidentale e introduce un linguaggio di “sfere” e priorità, con implicazioni dirette per Europa e alleanze.  

L’Atlantic Council, in un’analisi successiva, legge la stessa impostazione come un ritorno a logiche quasi ottocentesche: potenze che delimitano aree di influenza, e alleati che diventano pedine da riallineare. 

In questo schema, l’Europa vive un paradosso: più investe per dimostrare affidabilità, più teme di essere trattata come “cliente” e non come partner. E quando l’alleanza diventa un listino, l’idea stessa di ordine liberale – regole condivise, arbitri multilaterali, prevedibilità – perde ossigeno.

Ucraina: la pace come “deal”, con Mosca sempre in scena

Il finale d’anno ha offerto una fotografia brutale del metodo Trump in geopolitica: pace come accordo da chiudere, non come architettura da costruire.

Il 28 dicembre 2025 Trump ha incontrato Volodymyr Zelensky a Mar-a-Lago, dopo una telefonata con Vladimir Putin che il presidente USA ha definito “molto produttiva”.         

Reuters, tra il 24 e il 28 dicembre, ha raccontato i dettagli di una proposta in più punti su cui lavorerebbero i negoziatori: garanzie di sicurezza, nodi territoriali, e persino ipotesi su infrastrutture strategiche come Zaporizhzhia.

Ma la sostanza politica sta altrove: la pace, per Trump, sembra un risultato misurabile – un annuncio, una stretta di mano, una “chiusura” – mentre per Kiev e per molti europei è un meccanismo di deterrenza che deve reggere anche dopo le telecamere. Il Guardian, nello stesso giorno dell’incontro, ha evidenziato l’incognita delle garanzie e l’ombra dei raid russi come leva negoziale.  

Tariffe e commercio: l’ordine globale riscritto a colpi di dazio

Se la politica estera è diventata un grande tavolo da poker, le tariffe sono state le fiches. Analisi e “yearender” internazionali descrivono un 2025 in cui la leva commerciale è stata usata non come fine (proteggere un settore), ma come mezzo (ottenere riallineamenti politici).

In alcuni commenti economici l’aumento dei dazi viene collocato tra i fattori che hanno alimentato incertezza e volatilità, con un effetto domino su investimenti e previsioni di crescita.

Il punto, ancora una volta, è strutturale: quando il multilateralismo è percepito come un freno, la tentazione è bypassarlo. Ma bypassare le regole significa anche renderle disponibili al bypass degli altri.

Il bilancio: un’America più ricca al vertice, più fragile nelle regole

Mettere insieme i pezzi produce un ritratto coerente: un presidenzialismo espansivo, un rapporto competitivo con controlli e contrappesi, una visione “azienda-centrica” della politica, una diplomazia che preferisce l’accordo bilaterale al patto multilaterale.

Non è solo questione di stile: è un cambio di infrastruttura. Se l’America passa dall’essere “garante” a essere “contraente”, e se la giustizia passa dall’essere “istituzione” a essere “strumento”, l’ordine liberale non muore con un colpo di stato: si sbriciola per assuefazione.

E allora la domanda finale non riguarda Trump, ma il dopo: quante di queste torsioni resteranno anche quando cambierà il nome sulla porta dello Studio Ovale?

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